“Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”
1. La prima professione di fede in Gesù Figlio di Dio, nel vangelo di Marco e di Matteo, è pronunciata allo spirare del Crocifisso, dopo che egli a gran voce ha gridato: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Ed è pronunciata da un pagano, “il centurione che gli stava di fronte” – dice Marco (15, 39). L’intenzione è evidente. È solo nel suo morire da “crocifisso” e addirittura da “abbandonato” che Gesù rivela la sua identità e può essere riconosciuto e seguito nella fede.
Alla vigilia del triduo pasquale, vogliamo soffermarci su questo decisivo evento della nostra salvezza.
2. La narrazione della passione è in tutti i vangeli ampia e ricca di dimensioni, sulle quali occorrerebbe indugiare a lungo per penetrarne le risonanze teologiche ed esistenziali. Mi limito a due note introduttive, che derivo dal racconto di Matteo – presentato quest’anno dalla liturgia – per giungere poi subito al punto ove convergono il cammino di Gesù e di chi lo segue, e con lo sguardo di fede scruta il messaggio che gli viene dal suo volto di Crocifisso.
Innanzi tutto, la preghiera di Gesù nell’orto del Getzemani. Tutto ciò che sta per accadere s’inscrive entro il rapporto di Gesù con il Padre, come adesione costosa ma portata fino all’estremo alla sua volontà. Anche in rapporto alla sua passione e morte, vale quanto Gesù ha rivelato come sorgente e fine della sua missione: “tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia mostrare” (Mt 11,27).
L’atteggiamento di libertà, d’amore e di perdono che Gesù vive nei confronti di ciò che gli accade dagli uomini, ci fa conoscere il Padre: dal Padre lo ha “imparato” e insegnandolo e testimoniandolo è il Padre che Egli rivela come modello dell’essere e dell’agire dei discepoli. È così – alla luce della sua esperienza di Crocifisso – che si comprendono la pregnanza e la profondità della “giustizia” proposta nel discorso della montagna: “Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. (…) Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,43-45.48).
La seconda annotazione riguarda l’arresto di Gesù, un episodio sul quale, Matteo attira l’attenzione (26,47-56). Gesù ha preannunciato, al termine dell’ultima cena coi suoi, che ciò che gli sta per accadere rappresenterà per loro – anche per Pietro – una pietra d’inciampo (skándalon) (cf. Mt 26,31ss). L’arresto, infatti, avviene in un clima di violenza, intimidazione e falsità: il bacio di Giuda e la folla che brandisce spade e bastoni. Ed è in questo contesto che scatta la reazione, anch’essa violenta, di “uno di quelli che erano con Gesù” (nel testo parallelo, il quarto vangelo lo identifica esplicitamente con Simon Pietro [cf. Gv 18,10-11]).
La risposta di Gesù – che solo Matteo riporta – rimanda alla scelta messianica da Lui fatta, al rapporto col Padre e alla realizzazione del disegno divino di salvezza: “Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periscono di spada. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?” (Mt 26,52-54).
Almeno tre motivi emergono da questo deciso rifiuto della violenza. Da un lato, il detto di sapore proverbiale sulla spada riproduce il principio della rappresaglia e del taglione che Gesù ha dichiarato definitivamente superato nel discorso del monte. Dall’altro, il riferimento al Padre sottolinea il rifiuto di un messianismo basato sulla manifestazione della forza e sull’imposizione. Infine, il richiamo alle Scritture invita a saper cogliere nella paradossale via dell’impotenza, che così viene liberamente e consapevolmente assunta, la via regale per la realizzazione del disegno di salvezza.
3. Concentriamoci sulla scena della croce. “L’evangelista non intende offrire un resoconto dell’esecuzione capitale di Gesù. I particolari raccapriccianti della tortura mediante crocifissione erano ben noti ai primi lettori del vangelo. La preoccupazione di Matteo è quella di rileggere alcuni particolari conservati dalla tradizione in una prospettiva di fede, e più precisamente cristologica”.
Ciò che ci viene comunicato è il senso profondo dell’avvenimento della croce e il senso definitivamente svelato del messianismo di Gesù. Non per nulla, sia all’inizio della scena sia alla fine, c’è un esplicito riferimento alla confessione di fede in Gesù “Figlio di Dio”. La prima volta, in senso derisorio, è sulla bocca di coloro che insultano Gesù; alla fine, come già ricordato, su quella del centurione.
Tutto sta nel decifrare e nell’accogliere il segno di Dio dato attraverso la morte infamante della croce. Per chi oltraggia Gesù essa è la smentita della pretesa messianica del Nazareno. Nelle parole dei “nemici” – sapientemente introdotte nella narrazione da Matteo – sono due i motivi irrefragabili della smentita.
Innanzi tutto, l’impotenza di Gesù: Egli è inerme, non può salvarsi, pur avendo affermato d’essere “il re d’Israele”, “il Figlio di Dio” e d’essere in grado di distruggere e riedificare il Tempio in tre giorni (cf. 27,40.42).
In secondo luogo, il non intervento di Dio: “Ha posto la sua fiducia in Dio, lo liberi se gli vuol bene” (27,43). Qui sta il punto.
In certo modo, la caratteristica dell’impotenza, ma come attiva assunzione del rifiuto e della sofferenza, Gesù l’aveva preannunciata come essenziale della sua scelta messianica. E la figura profetica del servo di JHWH andava in questa direzione. Gesù crocifisso – così lo comprenderà la Chiesa apostolica – non è un “maledetto da Dio”, ma ha passato la prova del giusto sofferente.
E quindi, ciò che agli occhi dell’establishment politico-religioso del tempo appare come il fallimento della sua pretesa messianica, ne è invece – dal punto di vista dell’autocoscienza di Gesù e della fede apostolica – la conferma.
Dio salva in questo modo: attraverso il giusto suo servo che adempie fino in fondo la missione che gli è stata confidata, rispondendo con la piena adesione alla volontà di Dio al rifiuto, all’ingiustizia, all’oppressione.
4. Resta però aperto, e tragicamente, il mistero del non intervento di Dio a favore del Messia, che Egli stesso ha proclamato suo Figlio diletto e che tutta la sua missione ha giocato nella fedeltà a questo rapporto con Dio riconosciuto e sperimentato come Padre (Abbà).
Certo, vien subito da rispondere, il non intervento è temporaneo: il Padre, infatti, fa risorgere il Figlio il terzo giorno – come promesso – e così dà conferma escatologica della sua missione e della sua identità. Ma non dobbiamo troppo in fretta sottovalutare un fatto, cui Matteo (in accordo con Marco) annette estrema importanza: che Gesù – prima di morire – grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (27,46), per poi spirare gridando ancora una volta a gran voce (27,50).
C’è qui qualcosa che supera intenzionalmente l’interpretazione del suo messianismo nella prospettiva del giusto sofferente. È vero che si tratta di una citazione del Sal 22, ma la presenza di questo grido d’abbandono nel contesto della passio justi e, per di più, nel suo momento decisivo, è inattesa: infatti, il giusto – come mostra anche la chiusa del Salmo in questione – muore sicuro d’essere gradito a Dio, proprio perché è perseguitato a motivo della sua fedeltà. Occorre inoltre tener presente che Gesù non è condannato da empi, ma dai rappresentanti ufficiali della fede d’Israele, dai custodi della Legge e nel nome della Legge: Egli è stato riconosciuto e condannato come bestemmiatore.
Dunque, la morte di Gesù trascende l’esperienza del giusto sofferente, e – proprio per il suo rapporto singolare con il Padre – “acquista la dimensione di un dramma teologico e di una svolta definitiva” nella storia della salvezza. Il grido dell’abbandono dischiude uno spiraglio di profondità abissale sull’amore di Dio per l’uomo. Esso resta consegnato da Matteo (così come da Marco e, in altri termini, anche da Giovanni, nell’invocazione: “ho sete” [19,28]) alla comunità dei discepoli, i quali vi potranno penetrare se guidati dalla Luce dello Spirito (cf. Gv 16,13). Comunque, la narrazione di Matteo ci offre almeno due importanti vie d’accesso.
5. La prima interpreta il grido d’abbandono in relazione al rifiuto del Messia da parte d’Israele nel nome della Legge. Nella morte di Gesù viene in piena luce ciò che con progressiva e tragica durezza caratterizza il suo confronto con l’establishment politico-religioso del suo tempo. Gesù è venuto a compiere la Legge (cf. Mt 5,17) e per questo, in modo emblematico, a relativizzare l’istituzione del sabato e quella del Tempio. Rifiutato come bestemmiatore, Gesù è, per così dire, espulso dall’alleanza di Dio con Israele ed è condannato e giustiziato come “maledetto da Dio”. È l’interpretazione della sua morte infamante che darà Paolo, nella lettera ai Galati: “Cristo ci ha liberato dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, affinché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede” (3,13-14).
Gesù esce dall’alleanza di Dio con Israele per raggiungere la condizione d’ogni uomo davanti a Dio – anche di chi Gli è più lontano -: “così Dio stesso esce dall’alleanza antica per stabilire in mezzo alle genti un’alleanza nuova in Gesù crocifisso”. Tutto ciò è plasticamente reso evidente dall’evangelista attraverso l’immagine dello squarciarsi del velo del Tempio: la presenza divina abbandona il Tempio – come aveva predetto Gesù – per prendere dimora nel Crocifisso. Il valore universale della sua morte è poi sottolineato dal fatto che è un centurione romano, e dunque uno che non è sotto la Legge, a proclamare: “veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (27,54).
E proprio quest’esclamazione dischiude una seconda via d’accesso al mistero che si compie sulla croce. Essa c’invita a riflettere sul fatto che è nell’esperienza dell’abbandono da parte di quel Dio che Gesù ha sperimentato e annunciato come Padre, che Gesù si manifesta ed è riconosciuto come Figlio di Dio. Non è solo la sua fedeltà al Padre nella prova fino al dono della vita, ciò che rivela la figliolanza divina di Gesù: ma precisamente il non intervento del Padre. È qui l’estrema profondità della croce.
6. Perché dunque Gesù – che pure aderisce senza tentennamenti e fino in fondo alla volontà del Padre – grida al suo abbandono? Che cos’ha provato morendo come un “maledetto” sulla croce, incompreso e rifiutato dai suoi fratelli nella fede, abbandonato dai suoi discepoli, avvertendo che il Padre lo lasciava morire così, senza dargli alcun segno sensibile della sua presenza e del suo conforto? Non è possibile saperlo, anche se molti, mistici e non, si sono inoltrati o sono stati rudemente gettati in una simile notte di Dio. Perché, alla fine, il calice che Gesù ha accettato di bere è anche quello della notte di Dio.
Certo è il dato teologico che gli evangelisti Marco e Matteo ci trasmettono: Gesù di Nazareth ha saputo, in fedeltà al Padre e per amore ai fratelli, attraversare anche la notte di una sperimentale assenza del Padre per dare compimento al suo annuncio di pace e di riconciliazione. E così, solo così, si è mostrato “Figlio di Dio”. In una misura di libertà e di dedizione – di fronte al rifiuto degli uomini – grande come quella del Padre.
Gesù ha mostrato d’essere Figlio di Dio ed è divenuto primogenito tra molti fratelli nella risurrezione, non solo perché non è sceso dalla croce, ma perché non ha ricusato di sperimentare l’abbandono del Padre. Ha saputo e voluto non solo “perdere la sua vita”, ma anche “perdere Dio”, la sua gioiosa esperienza d’unione con Lui, per fare la volontà del Padre e per generare a Lui una moltitudine di figli.
Se il Padre è giunto a darci il Figlio – il cuore del suo cuore -, che cosa di più grande il Figlio poteva donare per noi se non Dio stesso?
“L’abbandono al momento supremo della crocifissione – commenta Simone Weil -: che abisso d’amore dalle due parti! ‘Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?’. Questa è la vera prova che il cristianesimo è qualcosa di divino”.
7. Per questo, il Cristo crocifisso e abbandonato è, per noi, l’inizio di una nuova esistenza e “misura” di una nuova prassi.
Ciò che deciderà il ricostituirsi definitivo della comunità messianica, a partire dagli undici, dopo la pasqua del Signore, sarà l’esperienza del Risorto che si manifesta in mezzo ai suoi. Senza di ciò nulla si spiega: “Se Cristo non è risorto, allora vana è la nostra predicazione e vana anche la nostra fede” (1 Cor 15,14.17).
Ma è essenziale ricordare che l’esistenza del discepolo nasce dalla croce e la sua prassi è tutta da essa segnata e su di essa modellata.
Le parole della sequela: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (16,24-25); così come quelle del discorso della montagna: “avete inteso che fu detto: ‘occhio per occhio e dente per dente’; ma io vi dico di non contrapporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra…” (5,38-39), non si comprendono nel loro significato e nella loro novità se non alla luce del Crocifisso.
È Lui, come spiega Paolo nella 1 Cor, il criterio e la misura della sapienza e della potenza di Dio che son chiamate a continuare nel mondo attraverso i discepoli.
8. L’evento del Crocifisso ci dona occhi nuovi sulla realtà e, prima di tutto, sui fratelli, chiunque essi siano. Gesù, nel suo abbandono, ama e raggiunge dal di sotto e dal di dentro l’esistenza di ogni uomo, superando la barriera della Legge. “Egli – scrive Paolo agli Efesini – è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia (…), per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace” (2,14-15).
Questo essere-uno-in Cristo è la grazia e il compito specifico della comunità del Crocifisso/Risorto che nasce dalla partecipazione alla morte e resurrezione del Signore: per cui la Chiesa ha da diventare ciò che è, profezia di una prassi di reciprocità che riconcilia le differenze. È lo stesso Paolo a esprimerlo con straordinaria efficacia: “Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,25-28).
Ma lo stesso atteggiamento vale verso tutti, perché tutti sono raggiunti dall’amore personale di Cristo, nell’attesa paziente del pieno sbocciare della loro libera risposta.
Certo, è possibile resistere – in fedeltà a questo sguardo di fede che ci è donato dal Crocifisso – di fronte a ogni prova, a ogni smacco, a ogni provocazione, solo restando in unione col Padre. “Non c’è altro criterio perfetto del bene e del male – è ancora S. Weil a parlare – che la preghiera interiore ininterrotta. Tutto è permesso di ciò che non l’interrompe, niente è permesso di ciò che l’interrompe. È impossibile fare del male all’altro quando si agisce in stato di preghiera”.
L’impotenza del Figlio di Dio che non scende dalla croce e attraverso la notte dell’abbandono è l’inizio di una storia nuova: “se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17).