Sala avvocati presso la Corte di Cassazione di Roma
Il professore Dalla Torre ha introdotto la sua prolusione riprendendo il tema della santità del laico già affrontato dalla relazione di padre Drago.
In proposito ha osservato come ci sia stata nell’incontro organizzato da Avvocatura in missione una provocazione: “C’è una provocazione nel parlare di santità. Io direi che c’è stata una doppia provocazione, non solo nel parlare di santità, ma nel parlare di santità qui. Potremmo chiederci ….. perché uscire dai luoghi propri della santità ed entrare in luoghi di altri fini, di altre attività? Sì, perchè? Direi che questo è l’aspetto di maggiore provocazione”. D’altra parte – ha aggiunto il relatore – “se è vero che la santità per certi aspetti può non apparire di moda, per altri aspetti lo sappiamo bene è ricercata. Tutte queste nuove forme di religiosità che invadono la società contemporanea sono nient’altro che la ricerca di una perfezione……..alla quale l’uomo aspira e che non sempre riesce a trovare”. A questo punto l’illustre relatore ha osservato – proprio avendo riguardo alla figura di San Alfonso de Liguori come nella società occidentale si possano individuare “ due grandi modelli che hanno in qualche modo plasmato le identità di noi occidentali in particolare di noi europei nel tempo. Il modello dell’antichità è stato il modello …. dell’eroe. Il modello dal medioevo in poi è stato il modello del santo. E questo modello del santo è stato talmente forte, è stato talmente incisivo, ha plasmato talmente la nostra identità di europei e di occidentali, che ci sono anche i santi laici, che ci sono anche i martiri laici.” …….” per dover parlare di una persona che ha manifestato in maniera particolarmente forte, particolarmente incisiva, particolarmente significativa la propria presenza nella società, non abbiamo altro riferimento che quello del santo. Santi o martiri sono stati quelli del risorgimento, santi o martiri sono stati quelli della resistenza e così via. Il modello del santo è il modello al quale noi ci rifacciamo inevitabilmente, come il riferimento più alto e più espressivo dell’umanità. Bene, che differenza c’è tra l’eroe e il santo? Qual è la differenza tra l’eroe pagano dell’antichità, l’eroe omerico e il santo? La differenza è sostanziale e radicale perché l’eroe è colui che in qualche modo ha trasceso o trascende la propria umanità, è un semi – Dio. L’eroe è giovane, è guerriero, è bello è perfetto e più vicino agli dei che non agli uomini; in qualche modo è una specie di proiezione di ciò che vorremmo essere ciascuno di noi – consci dei propri difetti o dei propri limiti – ma che non siamo. Ciò a cui vorremmo mirare e che non riusciamo a raggiungere. ……..Viceversa il santo è tutto il contrario. Il santo è – diciamo – il modello di un’umanità vissuta in pienezza ma nell’imperfezione, con tutti i limiti dell’umanità. È il modello anti modello dell’eroe. E’ colui che in sostanza non si distacca dall’uomo ma cerca di raggiungere la perfezione nel suo essere uomo; cioè, non nel pretendere di essere qualche cosa di diverso dall’essere uomo. Io ho in mente un’ immagine molto suggestiva, che certamente il padre Drago conosce perché si trova in un santuario che è caro ai francescani, il santuario di Leccio……è un’immagine di San Francesco che è un’immagine non bella dal punto di vista iconografico, un corpo piccolo, tozzo, una testa grande, gli occhi che lacrimano…. non è l’immagine bella che abbiamo a Subiaco con quegli stili ancora bizantineggianti…… ebbene quella è l’immagine più realistica però del santo, non dico di San Francesco, perché non so se effettivamente lo sia, ma certamente del santo, cioè di colui il quale non trascende la propria umanità ma di colui che vive in pienezza la propria umanità. A questo punto il relatore ha osservato come questa visione del santo sia perfettamente coerente con la visione cristiana “ perché il centro del credo cristiano è il centro dell’incarnazione. Non è l’uomo che diventa Dio, ma Dio che diventa uomo e che assume in pienezza la natura umana pur rimanendo ovviamente Dio. E quel passo che ha ricordato il padre Drago della Lumen Gentium del Concilio Vaticano secondo, lo dice molto chiaramente; quando appunto si afferma che Cristo svela l’uomo all’uomo, cioè l’uomo nella sua pienezza, nella sua integralità, nella sua verità. Dico questo, perché se è vero – come io credo che sia vero, – che la santità non è trascendimento di sé e della propria natura umana, ma è invece vita in pienezza ed in verità della propria natura umana,…allora ha un senso parlare di santità ed ha un senso parlare di santità anche in questo luogo, perché qui non si tratta di trasformare il luogo in cui deve essere amministrata la giustizia in un tempio, in un oratorio, in una chiesa, ma si tratta niente altro che di aiutare,a favorire la crescita di una comunità che lavora intorno ai temi della giustizia secondo umanità e secondo verità, cioè secondo quelle che sono le basi della santità. Insomma a noi cristiani non è chiesto di non essere uomini. A noi cristiani è chiesto di essere in pienezza uomini. Questo è il punto di riferimento. Credo che occorra liberare la nostra cultura che si è sedimentata nel corso dei secoli e che appunto pensa al santo come a qualcosa d’irraggiungibile. Così come credo che bisogna liberarci di una cultura che si è sedimentata nel corso dei secoli che pensa al santo soltanto come taumaturgo. Per il cristianesimo il santo autentico non è il taumaturgo, ma è colui che è da imitare e che è imitabile, cioè colui che è più che gli altri è riuscito a vivere in pienezza la propria umanità”. Il relatore ha poi così proseguito:” in questa prospettiva noi ci rendiamo conto dell’importanza di una memoria e di un ricordo del modello di santo quale fu San Alfonso De Liguori. San Alfonso De Liguori ha fatto tante cose, ha fondato un ordine religioso, è stato Vescovo, è stato un grande teologo ed un grande moralista, ma vogliamo oggi evidenziare come San Alfonso De Liguori venisse dalla carriera giuridica. Si è laureato a 16 anni a Napoli, Università Federiciana, ha svolto attività forense, è stato anche giudice uomo, di grande cultura, uomo che ha vissuto in un ambiente qual era quello napoletano degli inizi del ‘700 di grande spessore culturale. Napoli era uno dei centri della cultura europea e dunque San Alfonso è uomo che ha frequentato giuristi di grandissimo rilievo: Filangeri, Pagani, Iannone e così via. Dunque uomo che aveva una finissima e fortissima cultura giuridica. Non sto qui certo a fare la biografia di San Alfonso perché non avrei né il tempo né le conoscenze adeguate. Quello che mi preme e vorrei porre alla vostra attenzione piuttosto, è questo concetto: se il santo è colui che ha vissuto in pienezza la propria umanità, il modello di santo incarnato da San Alfonso che è stato un giurista prima ancora che un uomo di religione, prima ancora che un vescovo, un pastore o uno studioso di morale, può essere un modello emblematico e può essere un modello imitabile per chi esercita le attività forensi. In particolare può essere un forte punto di riferimento per gli avvocati. Forse non tutti conoscono la vicenda che ha portato al cambiamento radicale della vita di San Alfonso. Giovane e brillante avvocato, ad un certo momento gli viene affidata una causa di grande interesse giuridico e grande rilievo sociale oltrechè naturalmente di grandi interessi economici dal Duca Filippo Orsini contro il Gran Duca di Toscana. San Alfonso perde questa causa. Gli agiografi scrivono che San Alfonso non aveva mai perso cause, ma questo non lo sappiamo, gli agiografi qualche volta tendono ad esagerare. Comunque, sappiamo con certezza che questa causa così importante la perse. Non si sa bene peraltro perché l’abbia persa. Ci sono due versioni. La prima versione accrediterebbe piuttosto la tesi che Sant’Alfonso abbia perduto questa causa per aver -come dire – sottovalutato alcune clausole che erano negli atti e avrebbe dovuto studiare, esercitando appunto il proprio ministero di difensore di patrono. Altri invece ritengono che perse la causa per influenze politiche su coloro che dovevano decidere la causa, la qual cosa potrebbe essere egualmente probabile. La certezza non l’abbiamo, abbiamo però la certezza del fatto che Alfonso da questa – come dire – vicenda, esce sconvolto. Esce sconvolto al punto tale da abbandonare la professione forense, da abbandonare l’attività secolare mondana e da intraprendere una vita ecclesiastica e poi religiosa con la fondazione dell’ordine di cui è stato fondatore”. Il relatore a questo punto si è soffermato ad analizzare le influenze degli studi giuridici del santo e le esperienze acquisite nella sua attività forense nella sua attività successiva di moralista, di pastore e di fondatore di un Ordine Religioso. Tra l’altro il professore Della Torre ha osservato come: “non sarebbe concepibile Sant’Alfonso moralista in un secolo che vede gli opposti estremi del rigorismo di tipo giansenista e del lassismo come ideatore geniale di una via intermedia molto equilibrata nei confronti – diciamo – del problema delicatissimo del peccato, della penitenza, della confessione, se non si fosse a conoscenza anche della cultura anche giuridica di Sant’Alfonso. Egualmente non sarebbe possibile capire a fondo anche la sua speculazione dottrinale in materia teologica, in materia morale, senza avere la conoscenza di questa sua pregressa esperienza e di questa sua pregressa cultura…. A questo punto il relatore ha manifestato l’intenzione di individuare i “punti essenziali che vorrei richiamare in questa brevissima commemorazione per dire che in fondo il santo è un santo sempre imitabile. Il santo non imitabile, non è un santo ma è un falso santo. Quindi anche Sant’Alfonso può essere un santo imitabile da chi esercita la propria attività nel campo forense. Il primo aspetto da sottolineare nel pensiero di San Alfonso è quello del primato del diritto sulla legge. E questo è un discorso per noi abbastanza forte ed abbastanza duro perché noi siamo abituati ad una concezione del diritto secondo la quale il diritto è quello scritto. Il diritto è il diritto positivo, i principi generali dell’ordinamento giuridico, cui ci invita a fare riferimento il codice. Eppure è evidente che abbiamo al tempora consapevolezza che altro è la legalità dell’azione altro è la legittimità dell’azione; cioè che c’è un o ci può essere un divario che ci fa giustamente dire questa legge è giusta o ingiusta, questa sentenza è giusta o ingiusta. Ed effettivamente esiste – parlo a voi che siete giuristi e quindi ne sapete bene di queste cose – l’abuso del diritto. Io agisco secondo il mio diritto, l’esercizio di questo diritto però in realtà un è abuso, perché va a nuocere a quello che poi è il principio di giustizia sostanziale sottostante. Ecco io credo che uno dei primi insegnamenti di Alfonso in quanto giurista, è proprio questo: la necessità di tenere sempre presente questo aspetto della dinamica legalità – legittimità.La qual cosa non significa legittimare atteggiamenti di disobbedienza, di ribellione, di contrasto o peggio di disattendere. La funzione del giurista il quale certamente parte nella sua attività di esegesi della norma dal diritto positivo dai provvedimenti che sono stati dati, ma significa tenere conto che ci sono spazi di diversità tra questi due termini e che non sempre le due dimensioni legalità –legittimità coincidono. Un secondo punto: il diritto deve essere sempre uno strumento per far valere – uso questo termine tra virgolette – l’etica che è propria del diritto. Noi abbiamo una concezione anche qui molte volte distorta che nasce da delle dottrine che hanno dominato la cultura giuridica del ‘900 secondo le quali il diritto positivo deve essere lo strumento autoritativo per l’imposizione dell’ideologia e di un’etica quale che sia tra le tante…….. In realtà non è così. In realtà il diritto ha la funzione di vincolare l’etica che è sua propria dico…… e qual è l’etica propria del diritto? Bene, noi la riassumiamo nella parola giustizia. Funzione del diritto cioè, è rendere a ciascuno il suo, ovvero garantire rapporti che siano paritari; tutelare la parte più debole nel rapporto; riconoscere appunto a ciascuno ciò che è dovuto. Sembra semplice ma in realtà sappiamo che nella pratica il discorso non è così semplice. Terzo aspetto – vado proprio per sintesi – del pensiero di Sant’Alfonso: la centralità del problema dell’interpretazione. Noi sappiamo che il compito del giurista, sia esso lo studioso, sia esso il giudice, sia esso l’avvocato, sia esso il pubblico amministratore, il compito centrale del giurista è quello di interpretare la norma. La funzione del giurista è l’interpretazione. E’ il livello più elevato e anche più affascinante del nostro lavoro, del lavoro di noi giuristi. Ebbene Sant’Alfonso insiste molto su questa centralità dell’interpretazione, e questo perché la centralità dell’interpretazione riporta di nuovo in gioco quel punto che precedentemente ho richiamato, vale a dire il paradigma della virtù della giustizia; il paradigma della virtù della giustizia, come punto di riferimento della interpretazione e quindi come animazione del diritto vivente. E’ molto difficile che capitino delle leggi che siano alla nostra coscienza assolutamente – alla nostra coscienza dico, non al nostro intelletto – , assolutamente inaccettabili. Può capitare certo, ma è molto difficile. In tutti gli altri casi però possiamo avere di fronte una pluralità di interpretazioni possibili, e quindi una pluralità di strade che ci si aprono le quali non sono sempre tutte coerenti con il principio della giustizia e con la virtù della giustizia. Vi sono cioè diverse opzioni in cui una diversa interpretazione potrebbe allargare, divaricare quei due elementi di legalità e di legittimità a cui io prima facevo riferimento. Ecco, occorre tenere nella massima considerazione questa tensione di San Alfonso non nell’escludere, ma al contrario nell’invitare a trovare anche in una legge che potrebbe apparire ingiusta, quelle strade e quelle vie interpretative che possano essere conformi a giustizia. Ed ancora il primato della coscienza. Ovviamente Alfonso è un moralista, ma già vi ho detto che prima di essere moralista Alfonso è innanzitutto un giurista e la sua opera di moralista non si comprende senza aver presente la sua cultura giuridica che è attenzione alla persona, all’individuo e che quindi è attenzione alla coscienza. Noi oggi siamo abituati a parlare di coscienza soprattutto come qualche cosa che sia in termini di contrasto con il diritto positivo: l’obiezione di coscienza. E certo il discorso è anche qui complesso. E non c’è dubbio che sia così. Sappiamo che la legge legittima alcune obiezioni di coscienza, così come sappiamo che ci sono obiezioni di coscienza non legittimate. Personalmente da studioso di questi temi e di questi argomenti, ritengo che non si possa parlare di obiezione di coscienza quando la legge l’abbia riconosciuta perché in caso di riconoscimento non c’è più contrasto tra norme interne e norme esterne. La vera obiezione di coscienza è quando la legge non la riconosce. Quando io faccio valere la mia coscienza, ed accetto la sanzione che condanna il comportamento che io tengo in conformità al dettato della coscienza. Non mi ribello, accetto e subisco la sanzione. Riconosco la legittimità dell’ordinamento giuridico ma ne contesto i contenuti morali ed i valori in esso cristallizzati e quindi preferisco tra i due comportamenti possibili – obbedire e non subire la sanzione ovvero non obbedire e subire la sanzione – preferisco subire la sanzione. Non mi do alla macchia, non mi nascondo, e questo va bene, però testimonio questo valore ulteriore che è antitetico rispetto a quello contenuto nella legge. Ma qui il discorso – che io vorrei accennare soltanto, – rispetto a quello che è il principio del richiamo alla coscienza di Alfonso è un altro. E non in senso negativo appunto del contrasto tra coscienza e legge tra norme interne e norme esterne, ma piuttosto della solidarietà che ci deve essere. Cioè la consapevolezza che poi il diritto – in quanto diritto positivo – poggia la sua forza essenzialmente nella misura in cui in ciascuno di noi e nella collettività generale è recepito a livello di coscienza. Cioè nella misura in cui non appare soltanto come un comando esteriore ma viene interiorizzato e condiviso. In altre parole – detto in maniera più semplice ma forse più chiara – è evidente che è molto più forte la norma la quale poggia sul consenso di coscienza di ciascuno dei consociati, che non la norma che poggia sul timore dei carabinieri o sul timore di un giudizio di condanna. Credo che nella maggior parte dei casi, il Codice Penale non sia violato, non tanto per questo timore, quanto per la condivisione che i consociati hanno dei valori che il legislatore, ha espresso nella norma positiva. Ecco, sotto questo profilo, il richiamo alla coscienza che significa appunto un radicamento profondo dei valori che sono soggiacenti alle norme e che sono soggiacenti all’ordinamento e che rendono possibile la vita associata, è un altro principio – particolarmente rilevante – che traiamo dalle opere di Alfonso. E ultimo, – ma non perché sia l’ultimo – ma perché bisogna pur fare un elenco, è quello relativo alla deontologia professionale. Vi ho detto dell’insuccesso professionale delle origini ed alle origini della scelta di vita di Alfonso, e vi ho detto quindi di quanto quest’insuccesso professionale abbia inciso sulla sua vita successiva. Ed abbia dunque anche richiamato la sua attenzione – dal punto di vista della teologia morale e dal punto di vista della pratica del confessore – ai temi della deontologia, cioè ai temi del comportamento professionale corretto e coerente con i valori che debbono presiedere a questo comportamento professionale. Vi è stato distribuito il decalogo di Sant’Alfonso. Basta scorrerlo per renderci conto di quanto sia non solo attuale, ma anche di quanto sia rispondente a quelle che dovrebbero essere le regole, le grandi linee delle attività nell’ambito della giustizia: Non bisogna accettare mai cause ingiuste perché sono perniciose per la coscienza e per il decoro. La causa ingiusta va approfondita per individuare dov’è l’ingiustizia; ecco il problema del discernimento, il problema dell’ interpretazione, il problema dello studio del caso. Non si deve difendere una causa con mezzi illeciti e ingiusti; non si deve gravare il cliente di spese non dovute, altrimenti resta all’avvocato l’obbligo della restituzione; le cause dei clienti si devono trattare con quell’impegno con il quale si trattano le proprie cause; la dilazione e la trascuratezza degli avvocati spesso creano danni ai clienti e si devono rifondere i danni altrimenti si pecca contro la giustizia; l’avvocato deve implorare Dio e chiedere a Dio l’aiuto nella difesa, perché Dio è il primo protettore della giustizia. Non è lodevole un avvocato che accetta molte cause e superiori ai suoi talenti, alle sue forze, al tempo stesso disponibile e che dunque gli mancherà alla difesa. Qui forse c’è una vibrazione autobiografica, se è vera quella prima tesi secondo cui la trascuratezza dello studio di alcune clausole contrattuali sarebbe stata l’origine della perdita della causa. La giustizia e l’onestà non devono mai separarsi dagli avvocati cattolici, anzi si devono sempre custodire come la pupilla degli occhi. Un avvocato che perde una causa per sua negligenza, si carica dell’obbligazione di risarcire tutti i danni al suo cliente. Nel difendere le cause bisogna essere veridico, sincero, rispettoso, ragionato. Qui Sant’Alfonso non è che invita a perdere le cause, qui invita a mettere il meglio di sé, come giuristi nelle cause. Non i mezzucci, le piccole gherminelle attraverso le quali si cerca di raggiungere l’obbiettivo, ma attraverso la via maestra anche se è quella più faticosa. I requisiti di un avvocato sono la scienza, la diligenza, la verità, la fedeltà, la giustizia. Non mi dilungo oltre. Ho detto che sarei stato breve, e vedo che il tempo è andato avanti. Voglio soltanto ricordare l’idea da cui sono partito: la santità – a differenza del modello dell’eroe – è il vivere in pienezza la propria umanità. Sant’Alfonso certamente ci indica nella sua vita, nella sua esperienza, nella sua grande cultura, in tutto ciò che ha prodotto, questa via, che è una via per noi giuristi certamente imitabile e certamente da imitare.”