Ricordo di Don Giussani
Questo è l’articolo che non avrei mai voluto scrivere. Capita di dover buttar giù con le lacrime e non con l’inchiostro, alla rinfusa, le parole e i pensieri: quando muore un padre. Non lacrime per te, carissimo don Gius, che oggi sei nella felicità totale, accanto a quell’Amico e Padre e Creatore che ci hai fatto conoscere e ci hai insegnato ad amare, con forza virile e appassionata: a noi, migliaia di naufraghi di una generazione sola e confusa o disperata. Non per te che hai terminato la tua corsa così come l’hai vissuta, quando per noi interpretavi Leopardi e la VII di Beethoven, con il cuore in fiamme, gridando al mondo che il senso della vita e di tutte le cose è Lui, Gesù, Dio fatto uomo. Non per te che oggi sei stato accolto e abbracciato nel Mondo nuovo e definitivo dalla “ragazza di Nazaret”, la Regina umile e materna che veglia su ciascuno di noi (come ci incanta la sua tenerezza che ci hai fatto scoprire).
Ma lacrime per me, per noi, per il nostro tempo. Alla fine è sempre su di sé che si piange. Guardo i volti dei miei figli e penso che non sarebbero mai esistiti senza di te, senza la storia di amicizia che da te è nata e a un certo punto ha raccolto e salvato anche me e la ragazza che sarebbe diventata mia moglie, come tante altre barchette che nella giovinezza vagavano alla deriva. C’è un intero popolo, specie della mia generazione, che oggi guardando i propri figli pensa questo. E pensa che non potranno più incontrare e ascoltare quell’uomo coraggioso e appassionato, figlio della Brianza cattolica, che ha reso ardente la nostra giovinezza.
Ha acceso i cuori, ha illuminato le strade cupe di una gioventù incenerita dall’ideologia e divorata dalle sabbie del Nulla, ha fatto fiorire il cuore e l’intelligenza, ha fatto irrompere nelle nostre esistenze la bellezza di Gesù Cristo, proprio come nel quadro di Caravaggio che tanto Giussani amava, “La vocazione di Matteo”, dove Gesù, insieme a un raggio di sole, irrompe nella buia vita di Matteo e lo chiama per nome e lui – stupito di sentirsi guardato e amato – si chiede col gesto della mano: “io? Hai chiamato proprio me?” (lui che sapeva di non meritarlo, che conduceva una vita squallida).
E’ quella la prima volta che un uomo dice veramente “io”. Non si può dimenticare quel giorno. Io avevo diciotto anni quando incontrai due dei “suoi”, Andrea e Dado. Straordinari, affascinante la loro umanità, contagiosa la loro passione per la vita, per tutto ciò che è umano. Il giorno dopo c’era un tronco di quercia abbattuto su cui si poteva star seduti, una strada di campo, tigli in fiore davanti a me e il vento caldo che soffiava carezzando l’erba alta. Passai il pomeriggio a leggere avidamente quelle pagine. Era così entusiasmante scoprire lì la personalità umana di Gesù.
Non so quante volte ho riletto quelle parole di Giussani che Lo descrivevano nei fatti del Vangelo: “una presenza straordinaria”, “il dominatore della natura” (addirittura Gesù comanda alla tempesta e alla morte), “Egli ci conosce e ci comprende”, “il Signore della parola” (“di fronte a Lui tutti gli avversari erano impotenti”), “il Pastore buono” (“la gente potente, capace di scandagliare la nostra psiche, la gente che ci parla dalle cattedre, è così difficilmente buona! Lui invece… ‘Prese un bimbo e se lo pose sulle ginocchia’… Dio è buono perché ci salva”),.
Nessuno mai me l’aveva fatto conoscere e incontrare così. Mi sembrava di aver sempre desiderato di incontrare uno così ed essergli amico. Un antico padre – Dionigi l’Areopagita – si chiedeva: “chi potrà mai parlare dell’amore all’uomo proprio di Cristo, traboccante di pace?”. Il mio tempo ha avuto questa immensa fortuna, di avere uomini toccati dalla grazia nei cui volti, nel cui accento, nella cui umanità ci si accorge della presenza vera e potente di Gesù, per noi qui e ora. Penso, insieme con don Giussani, alla straordinaria persona di Giovanni Paolo II, penso a Madre Teresa. Dei giganti. Vere icone di Cristo, di un’umanità redenta, libera, vera.
Mi dicevano degli amici che nei giorni scorsi, come tutte le comunità di CL, anche i ciellini di Napoli si sono trovati a pregare insieme per don Giussani. L’hanno fatto nella cappella di San Gennaro e pare che alla fine il sacerdote si sia accorto, con qualche meraviglia, che il sangue del santo si era liquefatto. Non conosco i particolari. In ogni caso la speciale predilezione di Dio per quest’uomo, per questo sacerdote lombardo, era evidente. E non è un caso che la sua morte sia avvenuta nel giorno in cui la Chiesa celebra “La Cattedra di Pietro”.
Negli anni Settanta in cui la Chiesa era terribilmente sballottata dalla tempesta, dalla contestazione, dall’autodemolizione (come diceva Paolo VI), don Giussani ha portato migliaia di giovani, prima ostili o lontani, ad amare appassionatamente la Chiesa, in tutti i suoi aspetti, anche i più umani e poveri, a testimoniare la sua bellezza e specialmente ad amare e seguire il Vicario di Cristo in terra. Del resto, il Papa della mia generazione, Giovanni Paolo II, non è possibile non amarlo e ammirarlo anche personalmente (perfino il mondo è colpito dalla sua grandezza umana).
Oggi centinaia di quei ragazzi, un tempo lontani, che attraverso don Giussani hanno scoperto una fede impetuosa e l’hanno testimoniata in anni difficili nella scuole, nelle università, si sono sparsi nel mondo, dalle bidonville brasiliane, alle steppe della Siberia, dai grattacieli di New York alle terre insanguinate del centroafrica dove hanno fondato ospedali, missioni, scuole, dove spesso rischiano la vita per far conoscere Cristo “fino agli estremi confini della terra”. In queste ore tutti – lo so – ricordano con le lacrime agli occhi le ultime vigorose parole di Giussani che incitavano i cristiani a non vergognarsi mai di Cristo.
E’ commovente per me anche un ricordo personale: quando l’ho sentito per l’ultima volta. Era il 20 novembre del 2002. Era sera, stavo nello studio di Excalibur con Giancarlo Giojelli e Pietro Piccinini. E’ suonato il telefono: non me l’aspettavo, mi passarono don Giussani. Io da alcuni giorni ero entrato nell’occhio del ciclone, da tutte le parti – sui giornali – mi arrivavano colpi per aver “osato” parlare della Madonna (e della fede di milioni di persone) in un programma di informazione di prima serata.
Dall’altro capo del telefono quella sera sentii la sua voce familiare, fioca com’era da anni, affaticata, ma sempre piena di passione, di forza e autenticità: “Sono con te” mi disse “ti sono vicino. Hai tutta la mia stima e la mia simpatia”. Poi aggiunse: “Sii certo di quello che dici perché è tutto vero…è tutto vero”. Qui la sua voce fu sopraffatta dalla commozione. Il giorno dopo mi fece arrivare le altre parole che avrebbe voluto dirmi: “il problema non è se Dio esiste o no, ma se Dio si è fatto uomo o no. E la Madonna è la strada…”.
Dicevo delle lacrime. Sono lacrime per una generazione, quella dei nostri figli, nei prossimi anni, che – penso fra me – non potrà più incontrare un testimone così. Ma Cristo resta. “Credo che non potrei più vivere se non lo sentissi più parlare”. Quante volte Giussani ci ha ripetuto queste parole di Charles Moeller su Gesù. Anche questa morte è per la vita, per chi ha seguito e amato don Giussani. Se non c’è più un padre, ci saranno migliaia di figli pronti a dire ciò che hanno visto, udito, toccato con mano. A testimoniare che la vita ha un senso, anche quella che ritiene di essere insignificante: è grande e preziosa. Un giorno del 1940, nelle sofferenze della guerra e di una terribile malattia della figlia, Emmanuel Mounier scriveva nel suo Diario: “E’ molto bello essere cristiani per la forza e la gioia che l’essere cristiani dà al cuore, la trasfigurazione dell’amore, dell’amicizia, delle ore, della morte”.
Sì, anche per sorella morte sale la lode a Dio.
Antonio Socci