Ricchi e poveri di fronte alla giustizia
Intervento del dott. Gian Carlo Caselli Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Torino in occasione del 7° centenario della morte di Santo Ivo di Bretagna.
Vorrei cominciare osservando che povertà e ricchezza non possono in nessun modo essere considerate categorie biologiche. Non si è maschio o femmina, biondi o bruni, alti o piccoli allo stesso modo di come si è ricchi o poveri. Se i primi sono dati biologici, i secondi – ricchi o poveri – sono condizioni sociali che interrogano, con forza, la nozione stessa di giustizia.
Detto diversamente (per quanto possa apparire scomodo o imbarazzante), la povertà è la visibilità dell’ingiustizia.
Di conseguenza, la denuncia dell’ingiustizia.
Etimologicamente, il termine “povero” viene dalla radice greca del verbo “ptokein” che vuol dire “piegare” (donde anche la parola greca “ptokos” che vuol dire povero, in italiano “pitocco”, con lo stesso significato). Povero è dunque chi è “piegato” dal chiedere, curvo nell’atto del mendicare (con la schiena inclinata) ciò che gli manca per sopravvivere.
Se perciò poniamo davanti alla giustizia ricchezza e povertà, ne deriva un primo dato, e cioè che queste non possono coabitare davanti alla giustizia, perché è chiesto (in nome della giustizia stessa) di ricostruire opportunità di uguaglianza in modo tale che nessuna disuguaglianza (sempre possibile) neghi dignità a qualcuno o crei le premesse perché altri possano avere troppo o tutto. Non si tratta dunque di limitarsi a costruire norme perché poveri e ricchi rispondano allo stesso modo alla giustizia (il che è già altamente meritevole, discretamente anomalo, decisamente attuale), ma prima ancora, di adoperarsi perchè non si debba accettare come “necessario” ( o inevitabile) il fatto che esistano poveri accanto ai ricchi e viceversa.
Non solo. Nella visione biblica della esperienza umana, giustizia non è tanto (o non è “solo”) equa distribuzione tra le parti, ma anche o soprattutto difesa del debole. “Padre degli orfani e difensore delle vedove” è definito Dio nel Salmo 68.6; ma nel Salmo 140,13 si dice che “ il Signore difende la causa dei miseri e il diritto dei poveri”. Il volto del Re Messia è descritto così nel Salmo 72: “ governerà i poveri con giustizia, ai miseri del popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri ed abbatterà l’oppressore”.
Messaggi inequivocabili, che saldano nella giustizia la difesa del debole, del povero e dell’oppresso. Poveri non soltanto identificabili come vittime dell’ingiustizia, ma presentati come bersaglio, così abituale, del sopruso, che nella realtà concreta dei fatti spesso ricevono la connotazione di sfruttati. Il “misero” è dunque “giusto” non solo in quanto subisce prepotenze immotivate (vittima innocente), ma lo è anche nell’atto della sua rivendicazione di diritti negati. Rivendicare giustizia non è dunque solo lamentela, denunzia o querela, ma inizio di riscatto e di giustizia per chi è più debole. Ancora: domandare il “perché” di un’accusa è premessa di confronto che chiede al Giudice le ragioni di quell’accusa. Se il “perché” viene evaso, il Giudice diventa colui che opprime, diventa oppressore ed il povero invece diventa la vittima condannata al silenzio e all’esclusione, determinata dalla ingiusta condanna. Il ruolo del Giudice nel rispetto della legalità deve rifiutare l’indifferenza e impegnarsi a ottenere dal confronto il risultato di una giustizia concreta fuori da sterili burocratismi.
Yves Hèlory di Bretagna intreccia nella sua vita queste diverse sensibilità e culture: da una parte studi giuridici e dall’altra esperienza biblica e di fede. Avverte, detto in altri termini, che i “poveri” che incontra in virtù della sua professione, sono anche coloro che gli propongono un diverso volto di Dio ed una più completa immagine della giustizia. Yves arriva alla carità di Dio, passando per la giustizia dei suoi studi e della sua professione. Ma scopre anche che quella sua passione per la giustizia non può essere abbandonata in virtù della carità.
Straordinaria attualità del suo messaggio: non solo Giustizia e Libertà ma anche Giustizia e Carità perché non si debba – come dirà il Concilio Vaticano II – dare per Carità ciò che è negato per Giustizia.
Un ulteriore riflessione per quanto riguarda la situazione italiana:
Sicurezza e Clemenza: un terzo dei detenuti in Italia sono tossicodipendenti; un terzo di tutti i detenuti presenti nelle carceri italiane sono stranieri… ma che razza di giustizia costruiscono le nostre galere? Il carcere è dunque un lazzaretto che nasconde le parti deboli, quelle povere, del tessuto sociale!
Le intelligenze più acute della nostra epoca si sono profuse per inseguire condizioni sociali di vita quanto più possibile serene (o quanto meno sopportabili) per tutti. Purtroppo con scarsi risultati. Anzi, con risultati decisamente peggiorati, oltretutto, negli ultimi tempi se è vero – come è vero – che il secolo appena concluso (“il secolo dell’orrore”) ha seminato in profondità paura ed insicurezza: antiche certezze sono svanite, mentre faticano a delinearsi nuove prospettive; una trasformazione sociale profonda rende sempre più complessi i problemi del lavoro, che spesso non c’è; le guerre, le epidemie, le persecuzioni, le ingiustizie, ci fanno ogni giorno “compagnia” dagli schermi televisivi; nella politica “tradizionale” non si trovano più risposte convincenti; ed i lati perversamente opachi della globalizzazione gravemente incupiscono il quadro. Ma c’è di più: ed è la strumentalizzazione di queste paure e di queste insicurezze. Si parla sempre meno di un “diritto alla felicità” per tutti (che gli USA avevano persino scritto nella loro Costituzione). Si preferisce puntare sull’arroccamento – dei cittadini e degli stati – intorno ai temi della sicurezza. Si punta tutto sull’ordine pubblico. Si accantona la pratica concreta di libertà e diritti, che di fatto diventano ostaggio della sicurezza. Facciamo come Penelope: gridiamo sicurezza di giorno, ma di notte prepariamo o tolleriamo ingiustizie e violenze: un circolo vizioso che bisognerebbe rompere. E invece si è ben lontani da ciò.
Le vecchie e nuove povertà.
Prendiamo il fenomeno della “microcriminalità”. Le cifre del Ministero degli Interni e dell’Istat ci dicono che nell’ultimo decennio i delitti denunziati sono diminuiti: dai 2.647.735 del 1991 ai 2.163.830 del 2001. Nello stesso tempo, è aumentato il numero degli arrestati ( nel 1990 erano 64.814; sono diventati 112.617 nel 2001), è rimasto stabile quello dei denunziati ( tra i 500 e 600 mila annui), ed il numero dei carcerati è più che raddoppiato: da 26.150 del 31 dicembre 1990 si è arrivati ai 55.539 del 2001. E tuttavia, campagne mediatiche (solo in alcuni casi giustificate da accadimenti concreti di effettivo rilievo), intrecciate con la gara a chi grida più forte che ha impegnato la destra e sinistra di questi anni, ci hanno abituati a forza di ripetizioni ossessive degli stessi concetti – a ragionare in termini di “lassismo” imperante e di “tolleranza zero” sempre più necessarie ed urgente. In questo modo si è alimentato, radicato e rafforzato il senso collettivo di irrigidimento autoritario delle risposte penali In forza di una legge del 2001: le pene per lo scippo sono diventate più pesanti di quelle per la corruzione… e la scomparsa della “microcriminalità” dalle prime pagine dell’informazione scritta e televisiva all’indomani del cambio di maggioranza non ha modificato la tendenza, tutt’altro…: – come prova, ad esempio, il prepotente riproporsi del mito dell’autodifesa armata, di recente sfociato addirittura in una specifica proposta di legge.
Mentre il problema vero – a mio avviso – è ormai quello di rivedere il diritto penale e penitenziario, riscrivendo il rapporto fra Stato – penale e Stato – sociale. In particolare ponendosi il problema se il proibizionismo in materia di stupefacenti possa essere “ripensato”, alla luce degli effetti fin qui prodotti, ed interrogandosi sulle conseguenze nefaste, proprio in termini di sicurezza sociale, che inesorabilmente produce un sistema repressivo imperniato su di un carcere concepito come méra segregazione, senza reali spazi di recupero, perciò fucìna di sempre nuova delinquenza e conseguentemente di sempre maggior insicurezza.
Clemenza
Il dibattito sull’opportunità o meno di un atto di clemenza verso i detenuti (da qualcuno inteso come utile od anche necessario per risolvere il drammatico nodo del sovraffollamento carcerario) ci ricorda che senza clemenza non c’è giustizia . Questo sempre, non solo se le carceri sono stracolme. Se il colpevole non viene aiutato – anche dalla sanzione e dalle sue modalità – a capire il perché del suo errore, la punizione serve a poco, perché incattivisce chi la subisce confermandolo in una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza, nuovi errori e nuova insicurezza per la società civile. E’ questo il senso della clemenza: impedire che ci si accanisca sul colpevole fino a schiacciarlo e ad impedirgli di cambiare.
Drammatica tentazione dei nostri tempi, invece, è quella di essere severi e spietati con gli altri per continuare ad invocare clemenza su di sé. La ricerca di sicurezza ad ogni costo, con severità eccessive anche verso chi è portatore di semplice “diversità”, non esprime forse questa tentazione? Se le carceri continuano ad essere il luogo in cui si nascondono le contraddizioni della nostra società, se la pena è spietata (inutile e persino dannosa per sé e per la società), è proprio perché la giustizia non si salda, con quella clemenza che soltanto può mitigarla, renderla umana e perciò più giusta. [Su quest’altro versante (che si ricollega all’invocazione del Papa di un segno di clemenza, quale gesto di pacificazione e avvicinamento fra detenuti e società) viene alla mente quel brano del vangelo di Matteo (cap. 18,23) in cui si racconta del debitore che non aveva i diecimila talenti necessari per saldare un debito con il re. Questi ordinò ai suoi servi di applicare la pena prevista: vendere il debitore (con moglie, figli e quanto posseduto) per risarcire il danno causato. In ginocchio, il debitore, supplicò pazienza nei tempi, promettendo che avrebbe restituito ogni cosa. Impietosito, il re condonò il debito. Uscito graziato dalle stanze del re, il debitore incontrò un servitore che gli doveva cento denari (niente, rispetto al tesoro che erano diecimila talenti). Anche il servitore si inginocchiò e implorò pazienza, ma invano. Il creditore – perdonato come debitore – non usò la stessa misura e fece gettare in carcere il servitore.
In questo racconto c’è il senso della clemenza, per fare della giustizia un percorso davvero giusto. Nessuna confusione: i debiti vanno saldati e al debito non saldato deve corrispondere una certa sanzione. Ma se la sanzione diventa così pesante da risultare spietata e crudele fino a calpestare la dignità del colpevole – debitore, ecco che l’orizzonte della giustizia si allontana e prende il sopravvento la vendetta.
Nel testo evangelico, nessuno dei due debitori invoca la cancellazione del debito: chiede soltanto un maggior tempo a disposizione, un trattamento meno spietato, più umano. Questo è l’obiettivo della clemenza. Senza clemenza, la pena scivola inesorabilmente nella spirale tortuosa della persecuzione vendicativa: inefficace per chi subisce il castigo e sterile per chi da quel torto è stato ferito.
Ricchi e poveri di fronte alla giustizia – La Mafia: questione criminale e questione sociale.
Mafia non evoca soltanto una ben nota questione criminale ma anche una questione sociale che vuol dire: diritti negati, sviluppo impedito, ricchezza (ossia ricchezza economica) drenata, futuro per le nuove generazioni rapinato ed usurpato. Mafia nel nostro paese equivale ad impoverimento di vaste aree geografiche abbastanza ben determinate. Da una ricerca condotta dal Censis risulta dimostrato statisticamente che mafia significa un pesante zavorramento economico sia in termini di posti di lavoro che di Prodotto Interno Lordo: infatti verrebbero persi ogni anno a causa delle attività criminose della Mafia, circa 180 mila posti di lavoro e il Prodotto Interno Lordo viene diminuito per la stessa ragione di una percentuale tra il 60 e 97,1% su una media di PIL fatta pari al 5%annuo. Nonostante o forse proprio in contrasto con questo processo di impoverimento di determinate aree, il nostro è il Paese che ha saputo esprimere una proposta antimafia specificamente mirata a ridurre l’impoverimento di quelle aree geografiche attraverso la confisca e la redistribuzione delle ricchezze accumulate dalla criminalità organizzata. Voglio citare in questo senso l’esempio di Organizzazione Libera che fa capo alla sorella del Giudice Borsellino Sig.ra Rita e ad un sacerdote di Torino Don Luigi Ciotti i quali hanno organizzato una Cooperativa di produzione agricola e di distribuzione dei prodotti, sfruttando i terreni e le masserie confiscati alla mafia. Organizzazione Libera produce una pasta alimentare di ottima qualità, oltre ad olio e a prodotti ortofrutticoli ugualmente molto ben venduti sui mercati locali e nazionali. Questo vuol dire posti di lavoro, migliore qualità della vita, possibilità di reddito per numerose famiglie e quindi in definitiva meno povertà.
Ricchi e poveri di fronte al nostro sistema di giustizia
Si può dire che il nostro sistema processual – penale proceda su un doppio binario. Sant’Ivo diceva che un buon processo è quello che non si celebra, perché prima si riesce a trovare una soluzione conciliativa. Da noi invece i processi non si fanno perché alcuni riescono a sfuggire alla logica e alla sanzione del processo grazie ad “escamotages” e privilegi. In realtà, sembra che il nostro processo sia diventato un percorso ad ostacoli, una prateria sconfinata dove i ricchi ed i potenti possono utilizzare precauzioni di ogni tipo e possono puntare, grazie a difese aggiuntive e marchingegni particolarmente sofisticati, alle pene minime ottenibili nelle particolari situazioni prospettate al Giudice, laddove i cittadini comuni, in specie quelli poveri o socialmente handicappati, incappano in una serie di ostacoli e trabocchetti dai quali possono venirne compromessi i loro fondamentali diritti della persona o esserne in quanto cittadini di fronte alla legge, completamente stritolati. Insomma, quello che diceva Sant’Ivo sul processo sembrerebbe che oggi da noi abbia subito una netta inversione di tendenza in quanto può accadere che il processo non si celebri affatto, solo perché alcuni imputati particolarmente ricchi e potenti riescono a sfuggire al processo, e addirittura ad impedirne la conclusione.
Vorrei parlare ora di un recente libro-ricerca di due Autori, Sandro Calvani e Martina Melis su “Mafia e Criminalità organizzata”. Amplissima purtroppo, è la diffusione – ovunque nel mondo – dei fenomeni che questo libro analizza e descrive. E tuttavia si tratta di fenomeni ancora ben lontani dall’essere adeguatamente conosciuti: non solo dal “grande” pubblico, talora anche dagli stessi “addetti ai lavori”. La ricerca di Sandro Calvani e Martina Melis è perciò preziosa (in alcune parti persino insostituibile) per chi voglia acquisire – o approfondire – i dati più significativi in tema di riciclaggio, nuove schiavitù, immigrazione illegale, corruzione, produzione di falsi d’ogni genere (fino alle cosiddette “supercopie”), frodi, pirateria, cibercrimine, predazione delle risorse naturali, ecomafie, gioco d’azzardo, prostituzione, furti d’arte, traffici di tabacco, di diamanti, di organi, di animali e di armi, terrorismo e droga….In sintesi, quel “saccheggio globale” che dà il titolo al libro e che rappresenta appunto il lato oscuro – cupamente oscuro – della globalizzazione: dove si intrecciano – per altro – profili assolutamente “moderni” con altri che pensavamo scomparsi da qualche secolo e che invece protervamente riaffiorano ( si pensi alla riduzione in schiavitù e alla pirateria).
Esistono vere e proprie “imprese criminali globali” (che Sandro Calvani e Martina Melis descrivono anche offrendo uno spaccato significativo della strutturazione dei principali gruppi organizzati e tracciando eloquenti profili dei “grandi personaggi e interpreti” dei crimini senza frontiere) che costituiscono un gravissimo e concreto pericolo, le cui dimensioni ed implicazioni negative sono davvero immense. Perché “godono e ingrassano dovunque ci sia guerra e conflitto”. Perché se non ci sono guerre e conflitti, li provocano per poter godere e ingrassare. Perchè sempre “si lasciano dietro un deserto di miseria e di disperazione”. Perché rubano il futuro di intiere generazioni per l’arricchimento di pochi criminali e dei loro complici. Perché avvelenano l’economia e la politica, costringendole a piegarsi ai loro interessi. Perché contribuiscono a sviluppare un’ingiustizia praticata con metodo e costanza dalla quale nasce la rabbia, che può degenerare nella violenza e nel terrorismo. Perché sono – in estrema sintesi – i peggiori nemici della giustizia e della pace.
In campo internazionale, l’Europa ha proceduto a un certo coordinamento ed integrazione di risposte operative ai problemi che pone in senso tecnico la presenza del crimine organizzato , puntando ad una loro migliore efficacia, se non si vuole andare verso una sconfitta sicura. Nello stesso tempo deve crescere, a tutti i livelli, la consapevolezza che la sola risposta repressiva – per quanto necessario – non basta. Calvani e Melis offrono al riguardo, spunti davvero illuminanti di riflessione che valgono anche come indicazione precise. “Caino – ammoniscono gli Autori – vince dove Abele è più debole, dove ha armi meno efficaci e poca voglia di difendersi. Il crimine organizzato spesso prevale semplicemente perché occupa spazi abbandonati da stati schiacciati da un grave degrado politico e amministrativo, paralizzati da ridicole leggi burocratiche…, dalla mancanza di buona volontà, di risorse e di tecnologie adatte,, spesso solo dalla mancanza di buon senso. Grazie a tutto questo Caino vince: Abele si è arreso prima di combattere”. Inoltre, là dove, si sviluppano “forme efficienti di capitalismo selvaggio”; là dove “chi sa produrre ricchezza a grande velocità, spesso tende ad aggiustare a proprio vantaggio le regole del mercato, quelle del codice civile e penale”, là dove “la concorrenza e legalità spariscono e vince il profitto senza regole”: ecco che si ritrovano tutti gli “ingredienti essenziali della ricetta della mafia” di una “piovra globale del crimine…. di fatto impunita”
Se la tradizione è autentica, la conversione di Sant’Ivo avviene durante il suo incontro con dei poveri – malati in una specie di ospedale dell’epoca. E’ questo incontro (fisico, reale, fatto di persone, di sguardi e di richieste) che genera in Ivo voglia di cambiare, e di coinvolgersi per la giustizia accanto ai poveri. E’ importante parlare di giustizia e di poveri.
Qualche volta, dobbiamo osare anche il coraggio di “stare” con chi è povero.
Solo da questa condivisione radicale si capisce cosa vuol dire avere “fame e sete di giustizia”.
Fare nel proprio lavoro di giustizia, riferimento a Sant’Ivo di Bretagna e a tutti coloro che cercano quella giustizia autentica che difende il povero dall’oppressione, mi porta ad identificare il modello di Sant’Ivo di Hèlory con quello della figura di un grande sacerdote, Don Tonino Bello. E’ proprio questo il modello che ritroviamo nell’opera e nel pensiero di Don Tonino Bello. Nella sua “Lettera sugli Ultimi” egli dice che Giovanni Paolo II è importante come Antonio che fa il subacqueo di frodo per campare la sua famiglia. Gorbaciov vale quanto Pantaleo che, come un ebete, se ne va in giro tutto il giorno con il cane. E Nelson Mandela, liberato nella sua gloria, ha le stesse quotazioni di Saidd, negro anche lui, ma che braccato dal disinteresse generale è rimasto prigioniero nelle sacche della miseria della nostra città. Queste parole di Don Tonino Bello, rafforzano la tesi che la sola storia possibile è quella che ci vede accanto – gli uni agli altri – per costruire insieme senso e reciproca liberazione. Una storia che costruisce futuro solo insieme ai suoi poveri e a partire con i suoi poveri (l’avvenire ha i piedi scalzi!).