Quando la logica non sa distinguere tra umani e tafani
ROMA, domenica, 6 marzo 2005 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
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Interventi come quelli del professor Sartori sul «Corriere della Sera» del 28 febbraio e del 4 marzo possono avere un’unica utilità: mostrare quanto sia difficoltosa e improduttiva la via di chi vuole «dare ragioni» per l’approvazione dei referendum sulla legge 40.
I quesiti referendari sono in realtà indifendibili, e falliscono su ognuno dei punti che intendono abrogare. Contando sulla compiacenza e sul conformismo dei media, i sostenitori del referendum pensano di riuscire a falsificare gli argomenti di chi difende la vita, mentre in realtà la pochezza delle loro basi scientifiche e razionali fa risaltare per contrasto la serietà delle posizioni che vorrebbero demolire. La loro debolezza si mostra nel fatto che ritengono più prudente sfuggire tali posizioni con il dileggio che affrontarle decorosamente.
Si consideri l’esordio di Sartori nell’articolo del 28 febbraio: «Fede e ragione. Vi sono questioni che sono materia di fede, e questioni che sono materia di ragione». E fin qui nulla da ridire. Ma subito dopo aggiunge: «Se Dio esiste è materia di fede». E qui sbaglia clamorosamente. Tutta la storia della filosofia, fin dagli albori della civiltà, si è posta in termini del tutto razionali il problema del principio, del divino, degli dei e di Dio. Che l’uomo sia naturalmente religioso non lo dice la Chiesa Cattolica, ma la millenaria riflessione dell’uomo su stesso e sul mondo.
La Chiesa, piuttosto, riconosce questa sua continuità con le aspirazioni profonde che da sempre alimentano il cuore dell’uomo, e insegna che «Dio […] può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione partendo dalla cose create» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 36). A questa razionalità dell’esistenza di Dio Sartori abdica in partenza.
Sartori offre senz’altro un’occasione per mostrare quanto siano inconsistenti le strutture «logiche» con cui le posizioni etiche dei referendari vengono sostenute. La teoria di Sartori non è nuova nella bioetica: ha avuto predecessori illustri, come T.H. Engelhardt e P. Singer, che, a dire il vero, sono considerati anche da molti referendari degli estremisti. Singer è stato spesso ritenuto, anche da parte laicista, «eccessivo», dal momento che arriva a individuare nel regno dei viventi animali personali e esseri umani non personali. Per lui, infatti, i criteri di individuazione della dimensione personale sarebbero essenzialmente «la coscienza e il desiderio», evidenti nella capacità di provare piacere e dolore e di intessere una qualche vita di relazione.
Questo ci costringerebbe a condividere tale dimensione «personale» con vari animali «evoluti» (che interagiscono con l’ambiente e comunicano con altri viventi, seppure solo attraverso codici di segnali), ma ci permetterebbe almeno di «guadagnare» la dignità personale, rispetto alla posizione di Sartori, per un certo numero di bambini. Se poi si considerano gli studi sulla vita fetale, che collocano l’attività elettrica cerebrale e la capacità di percepire stimoli dolorosi già a 18-20 settimane di gestazione, nonché i dati relativi alla comunicazione e all’apprendimento del feto durante la gravidanza, si potrebbe anticipare la vita personale all’epoca prenatale perfino seguendo la grottesca e violenta etica pratica singeriana (cfr. C.V. Bellieni, L’alba dell’«io». Dolore, desideri, sogno, memoria del feto, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2004).
Ma a Sartori le aberrazioni di Singer non bastano: più drasticamente ancora, afferma che la semplice vita diventerebbe vita umana (nemmeno si impegna in termini come vita personale) quando il nuovo essere ha la capacità di «rendersi conto», cioè la capacità di autoconsapevolezza.
Il Professore affronta la questione in nome della logica, ma di errori logici ne commette vari, e imbarazzanti. Il primo è quello di reintrodurre surrettiziamente il termine vita umana proprio quando lo esclude, cioè prima che la vita umana, secondo lui, abbia inizio. Scrive infatti: «la vita umana comincia a diventare diversa, radicalmente diversa da quella di ogni altro animale superiore quando comincia a “rendersi conto”. Non certo da quando sta ancora nell’utero della madre». Ora, se è la vita umana che inizia a diventare diversa, vuol dire che – a rigor di logica – è già umana, anche se giudicata «simile» o «uguale» a quella animale.
Inoltre, l’espressione capacità di autoconsapevolezza è tra le più vaghe che si possano udire. Nelle intenzioni di Sartori, forse, vorrebbe indicare la dimensione meta-biologica dell’essere umano, cioè il fatto che la dignità personale non si identifica con la mera vita fisica. Nulla di più vero. E tuttavia tale dimensione meta-fisica, proprio per il suo carattere spirituale, sfugge alle leggi dell’organismo, anche se è da queste condizionata. Se introduciamo un principio non fisico per spiegare la natura dell’uomo, non possiamo poi trattarlo come se fosse determinato, anzi causato, dalla materia, cioè da «un certo grado» di sviluppo corporeo, quello che consente appunto il manifestarsi dell’autoconsapevolezza.
Per il sagace professore dovrebbe essere l’anima a fare la differenza, in una prospettiva dogmatica che la Chiesa avrebbe «dimenticato» e che per la razionalità filosofica sarebbe inaccettabile. Sfortunatamente per lui, è la nozione filosofica – e non dogmatica – di anima razionale che ci permette di attribuire tale principio vivificante ad ogni corpo umano, qualunque sia il suo stadio di sviluppo. Spiega Ramon Lucas Lucas: «l’anima umana è l’unico principio di vita, cioè l’unica forma sostanziale del corpo. […] Dunque la vita vegetativa d’un embrione umano [quella che alcuni chiamano la “semplice vita biologica”] è una vita personale perché il suo principio vitale unico è l’anima spirituale» (R. Lucas Lucas, Bioetica per tutti, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, p. 124).
E Roberto De Mattei, in un articolo apparso su «Il Foglio» lo scorso novembre: «L’embrione […] non è uomo solo perché l’uovo fertilizzato contiene un nuovo programma di vita, delineato e inscritto in modo stabile nel genoma dello zigote. Ciò è vero, ma non dimostra ancora che esso sia persona. L’embrione è persona perché il suo principio vitale è il medesimo dell’uomo adulto. Ma questo principio vitale – ecco il punto – non è di natura biologica, ma spirituale. E’ un principio immateriale che nella tradizione dell’occidente è noto come anima» (R. De Mattei, Se l’embrione sia solo vita o anche persona, «Il Foglio», 6 novembre 2004).
Dunque, come si vede, la nozione di anima non è stata affatto dismessa dalle riflessioni antropologiche, ma rappresenta l’imprescindibile criterio di individuazione dell’essere umano, proprio nel suo senso originario di principio vivificatore, che «fa vivere».
Diversamente, quale può mai essere il significato della capacità a cui si riferisce Sartori?
1. Se si fa coincidere con le manifestazioni dell’autoconsapevolezza (sviluppo intellettivo, linguaggio, vita di relazione, ecc.), si incorre prevedibilmente nelle critiche da più parti avanzate alle argomentazioni del Professore: numerosi sono infatti i momenti della vita umana in cui tali manifestazioni sono assenti. Oltre alla condizione dei neonati e dei cerebrolesi, comprende quella degli embrioni e dei feti, come pure dei pazienti sotto anestesia, degli ubriachi, di coloro che dormono o che sono in coma. Tali obiezioni sono giunte a Sartori come un coro, apparse su numerosi giornali, dallo stesso «Corriere della Sera» all’ «Eco di Bergamo» e perfino sull’insospettabile «Riformista».
Il Professore non si dà per vinto. Insiste e ribadisce che le sue considerazioni sono «terra terra», non richiedono elaborate elucubrazioni e vanno prese alla lettera: la vita umana sarebbe tale quando c’è non la manifestazione dell’autoconsapevolezza, ma la capacità di esercitarla, cioè la condizione di attivabilità di tale caratteristica, che dunque può essere espressa anche a intermittenza o non esprimersi più perché «atrofizzata». Il salto di qualità, in altre parole, si farebbe una volta per tutte. Dice Sartori: «una persona umana che è già tale, tale resta». Il difficile è diventarlo, anche perché, se si ammette che ci possa essere un istante in cui la vita di un individuo della specie uomo non sia umana, allora tale dignità umana-personale resta costantemente esposta alla sua negazione.
2. In questo senso, la capacità di autoconsapevolezza parrebbe essere, in analogia a quanto ha sostenuto Maurizio Mori per l’attività simbolica, la condizione di colui che ha l’ha esercitata almeno una volta (ne parla M. Palmaro in Ma questo è un uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004III, p. 44). Tale interpretazione consentirebbe di «salvare» i dormienti e gli anziani non più capaci, o coloro che per un insulto traumatico o non traumatico perdono la coscienza di sé, temporaneamente o in via definitiva. Non potrebbe tuttavia comprendere in alcun modo i bambini molto piccoli (neonati e infanti), né i cerebrolesi o i disabili mentali dalla nascita. Queste categorie di persone non sarebbero da considerare vita umana. E a questo proposito è interessante che Sartori non abbia mai risposto, nel corso delle critiche avanzate in questi giorni, alla domanda se i neonati siano per lui da considerarsi vita umana. Sarà per un residuo senso del pudore?
3. Non resta che una strada: quella per cui la capacità di Sartori va intesa come possibilità logica e ontologica di sviluppare l’autocoscienza, ovvero si identifichi con la presenza di una natura razionale, con l’appartenenza ad un genere vivente caratterizzato essenzialmente dall’intelligenza e dalla volontà, quale è solo l’uomo. Per avere tale possibilità, dunque, basta essere vivi e appartenere alla specie umana, cosa vera anche per lo zigote. Tale appartenenza è determinata infatti dalla «scintilla di vita» di cui parla Sartori, ovvero l’«attimo della fecondazione, della congiunzione dello spermatozoo maschile con un gamete femminile».
L’unico senso accettabile – sempre a rigor di logica – della capacità intesa da Sartori, dunque, non è la possibilità di esercizio delle facoltà «superiori», ma la condizione di possibilità di tale dimensione spirituale, cioè l’appartenenza alla specie biologica umana di un vivente, quale segno rivelatore di una natura (o anima) razionale.
Le conseguenze di Sartori, d’altra parte, parlano da sole. Afferma infatti: «per la logica io uccido esattamente ciò che uccido». Un embrione, un tafano, una mosca o un pidocchio non differirebbero molto, almeno fino a che l’embrione resta un «programma di vita umana», un «futuro che non esiste». Già. Soprattutto quando l’assurdo viene travestito da «logica» per cancellare l’etica.
[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]