La Parola … chiama
(giovedì 5 febbraio Avvocatura in missione)
Mons.Vincenzo Pelvi – Ausiliare Napoli
Dalle parole di Babele
Uscire da Babele, come annota il brano di Gn 11,1-9. L’umanità aveva un compito: emigrare. occupare la terra, trasformarla. Era una consegna ricevuta da Dio nel progetto della creazione. Ma un giorno, si arresta; vuole costruire una città, innalzare torri vertiginose. L’ambizione è palese, la presunzione infinita: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome”.
Nell’uomo c’è una “volontà di potenza”. E così l’infinita presunzione si trasforma nel dramma della confusione. Babele diventa il simbolo delle imprese umane realizzate sulla sabbia dei propri costrutti ideologici, assolutizzando il mondo, senza o contro Dio. Il significato di Babele sembra parlare a tutte le stagioni della storia. Soprattutto oggi. Perché la confusione? L’incapacità di capirsi? Perché il disaccordo totale, persino attorno ai valori fondamentali? Forse anche nella storia odierna c’è una Babele del pensiero e della parola. Il pluralismo culturale è un valore; ma il relativismo morale è una grave ferita nella coscienza degli uomini.
Pare che neppure attorno ai valori più decisivi dell’essere uomini ci sia un qualche consenso e la possibilità di intendersi. Pensiamo al valore della vita umana, della persona. della coscienza. Lo stesso codice morale del “non uccidere”, del “non rubare”, è finito in brandelli. Ogni valore, da quello assoluto di Dio a quello più vitale per ogni uomo, è segno di contraddizione: si respira il clima invivibile dei quartieri di Babele. Eppure tutti avvertiamo il bisogno di uscire dalla confusione. Nel cuore della gente, di ogni persona, c’è pur sempre un residuo di nostalgia, un desiderio di ordine, che fa parte della natura umana, del progetto originario, quando tutto era “buono”.
È comprensibile la diffusa voglia di pulizia, di giustizia, di trasparenza, di valori, anche nell’areopago del nostro tempo (At. 17, 22).
… attraverso l’Areopago
Cosa trovo nell’Areopago dei nostri giorni? Un bisogno di “verità“: a livello di
relazioni pubbliche, di amministrazione del bene comune, di rapporto tra potere politico e comunità civile. La domanda di verità sorge da uno sfondo oggettivamente confuso, scettico, relativistico.
Una domanda di “moralità“; la quale però non è da identificare con un serio bisogno di valori, per riossigenare l’esistenza personale e sociale. Essa è soltanto un’esigenza di “nuove regole” per una convivenza più vivibile, per uscire da una situazione di violenza aggressiva e di trasgressione generalizzata.
Un diffuso appello alla “coscienza“ personale, che, nell’accezione comune, è il luogo delle scelte, della responsabilità e della libertà. Spesso, però, la coscienza è una sorta di contenitore vuoto, l’espressione di una soggettività assoluta, arbitra del bene e del male.
Un clima di protesta. C’è una duplice protesta: quella rumorosa della piazza, non certo senza significato o inconcludente; soprattutto nel nostro contesto, in cui conta anche il volume della voce, la forza di provocare disagi nell’ingranaggio del sistema; e poi c’è la protesta degli schieramenti per assai sensibili al consenso. Sullo sfondo della protesta la cultura dei diritti esasperati. La bilancia diritti-doveri pende fragorosamente da una sola parte. È carente la coscienza della reciprocità diritti-doveri. Non si può sottovalutare la forza dirompente dell’onda protestataria, che certamente ha pesato sulle grandi svolte storiche, ma che ha bisogno di persone sagge, capaci di discernimento e di profezia, perché il nuovo si realizzi veramente nella direzione del bene di tutti e un’aria di indifferenza. La presa di distanza, dalla politica e dallo stesso sociale, gonfia vistosamente le grandi aggregazioni giovanili, attraversate dai venti incrociati del “narcisismo” e del “nichilismo”. Il narcisismo è l’estremo esito di quel fenomeno che gli studiosi definiscono “soggettivismo esasperato”. Il mondo viene visto come pare. Ciascuno cerca di stare bene il più possibile.
La vita è ridotta al frammento del presente. Non serve dunque progettare, prendersi delle responsabilità. Soprattutto nei confronti degli altri. “Chi me lo fa fare?”. E presto il narcisismo cambia maschera: diventa nichilismo. “Che senso ha vivere?”. Una domanda che talora affiora sulla soglia di scelte drammatiche, senza facile ritorno.
Sin qui esiste un sostanziale consenso. Ma chi, come noi, è illuminato dalla luce della fede va oltre questa soglia. E sa che c’è una verità tenuta sotto censura: quella dell’uomo peccatore, egoista. Una diversa qualità di convivenza civile non può prescindere da un profondo cambiamento interiore. La vera garanzia della “legalità”, di una società capace di convivere nel rispetto reciproco, è la restituzione dell’”etica” e pertanto di valori, alla politica, all’economia, ai programmi di promozione del bene pubblico. E l’etica non è un complesso di valori astratti da applicare, come francobolli, alle varie situazioni umane; bensì affonda le sue radici nella coscienza di ogni uomo e di ogni credente in particolare; quella coscienza che è riflesso e creatura di Dio.
Insomma, per uscire da Babele bisogna avere il coraggio di una diagnosi seria, che, soprattutto per il cristiano, spinge oltre le soglie della protesta, delle parole, per fare chiarezza sulla verità più scomodante e più impegnativa. La quale, per altro, viene efficacemente ricordata dal salmo 126: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori; se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode”. Nell’Areopago dei nostri giorni c’è anche una parola profetica. Forse questa è più vasta di quanto si creda. Ma c’è una sorta di freno a venire troppo allo scoperto. C’è una crescente voglia di una “Parola” nuova, che pulsa nelle molte direzioni come il rapporto scienza-fede; la disponibilità ad approfondire la “dottrina sociale” della Chiesa; l’accesso ai corsi di formazione socio-politica, la persistente presenza giovanile nelle varie esperienze di volontariato, l’interesse ai grandi temi umano-sociali.
Questa Parola non è un privilegio del mistico o dell’intellettuale che scruta, per conto suo e coi suoi raffinati strumenti e per le sue economie spirituali, le profondità del mistero. E’ invece un dono che può essere gustato solo da chi accetta la fatica di tradurre la sua spiritualità in lingua e dialetto locale, perché anche gli uomini la possano intendere e ne possano godere. La Parola non è un bene privato, ma ci è stata data per gli altri, per la Chiesa e per il mondo, e dunque va tradotta, va donata a tutti, va ridetta secondo la lingua oggi parlata, in termini secolari, secondo il vocabolario e la sintassi dell’uomo di oggi. perché tutti possano sentire come un dono, come qualcosa d’importante e beatificante. Una tale Parola necessita di due attenzioni: semplificare e personalizzare.
Anzitutto, semplificare, che significa, prima di tutto, aver chiaro, chiarissimo quel che si vuol dire; individuare poi il nocciolo e puntare dritto su quello, eliminando i fronzoli, i preamboli, le digressioni, e possibilmente focalizzare l’attenzione sull’idea, la notizia, la provocazione o esortazione che, per quella volta, si vuole comunicare. Evitare il vizio di restare nel vago, di ricorrere ad astrazioni peregrine, specie quando si è chiamati a confessare la propria esperienza di Dio, la spiritualità e il riflesso di tutto ciò sulla vita e sulla propria felicità.
È buona cosa imparare a “scrivere per terra” come Gesù di Nazaret e non sulle nuvole, e ricordarsi bene questa verità: non esiste nessuna realtà e nessun concetto (per quanto alti) che non possano esser espressi in maniera comprensibile. Anche il mistero, con tutto il suo inesauribile spessore, può essere detto in termini accessibili, che ne colgano almeno qualche aspetto e ne sfiorino la ricchezza di senso.
La seconda attenzione è quella di personalizzare il discorso. La regola è questa: all’uomo interessa l’uomo. Se si vuol trasmettere delle idee, bisogna farle passare non attraverso un ragionamento astratto, ma attraverso delle persone concrete. Alla gente non interessano i discorsi ma le esperienze, non le teorie ma le storie. Personalizzare vuol dire ancora, e forse soprattutto, coinvolgersi personalmente nell’annuncio, compromettersi con quel che si dice e si raccomanda agli altri, lasciare che chi ascolta chieda conto non della teoria spiegata, ma della coerenza con cui l’annunciatore la vive se fossimo tutti testimoni e poi maestri …
… perché la “Parola” si dilati in Città
Gesù è la parola che si presenta con una straordinaria signoria, mentre la folla, entusiasta e contraddittoria, grida: “passa Gesù il Nazareno”. Gesù va diritto per la sua strada, sa in quale casa deve entrare e di quale salvezza c’è bisogno. Gesù sa che qualcuno lo aspetta: la Samaritana, Levi, Zaccheo, apriranno il cuore e cambieranno vita. Di qui il nostro coraggio di attraversare la città, passando tra le folle nel nome di Gesù, per la via dell’obbedienza della fede. Qualcuno inaspettato ci attende sempre e ci farà entrare nella sua casa e proverà gioia. È necessario, faticoso e bello che la Parola attraversi la città dove abitano e lavorano gli uomini e le donne di oggi. Gesù in noi ascolta, capisce e coglie quello di cui si ha più bisogno.
La nostra Città ha bisogno di noi, anzi della Parola che abita in noi. Non abbiate un’idea della fede troppo intimistica, Gesù parlava per le strade, entrava nelle case, non faceva differenze, sapeva meravigliare, era discreto e deciso. Al suo passaggio saliva la lode a Dio perché annunciava l’evangelo. Non rinchiudetevi mai, la Chiesa è aperta al mondo.
I luoghi che tocchiamo nella vita quotidiana (lavoro, studio, università, impegno politico e sociale, ecc.) sono quelli in cui si gioca maggiormente il nostro essere cristiani. Il rischio che sempre corriamo è quello di vivere la fede nei luoghi che solitamente consideriamo ad essa attinenti e per il tempo limitato all’interno della comunità. Ci piacerebbe che la fede incidesse nel quotidiano, che ci guidasse in ogni istante, che fosse colmata la separazione fra fede e vita. Spesso non consideriamo il lavoro, lo studio, i rapporti di amicizia come l’opportunità di vivere la nostra identità di cristiani, per portare la parola di Cristo, per incidere nella società e nella storia. Vogliamo mantenere questa tensione in tutti gli ambiti della nostra vita e per questo essere sostenuti da un cammino di preghiera che ci aiuti a divenire credibili per uno stile di sobrietà, semplicità, coerenza, attenzione all’altro attraverso “il pali divina”. Vorrei che venissimo contagiati da questo invito di S. Tommaso nell’annunciare Gesù in un mondo che cambia. La logica del soffrire le cose divine è sempre presente nel Vangelo, laddove si parla della gioia e della luce. In realtà, la luce non toglie totalmente l’oscurità. Anzi, suo compito e valore è quello di farci passare da una oscurità ad un’altra più preziosa, dove la presenza divina si impone più fortemente. L’alternarsi di tenebre e luce rende più vivo il senso di ciò che è davvero essenziale, fino a che si tocca l’oscurità ultima che è vicinissima alla luminosità definitiva. Lì, solitudine e comunione sono così connesse da coincidere praticamente: come dice il Salmo 139, 2, “Tenebre e luce per te sono uguali”. Rinnoviamo, perciò, nonostante le tenebre, la fiducia nella luce giornaliera della Parola, con la certezza che chi ha messo nelle nostre mani l’aratro per annunciare, ci è vicino giorno dopo giorno, ha in serbo per noi la razione di felicità per ogni occasione.
Vi auguro, allora, di essere rivelatori del “Verbum fascinosum et tremendum”, parlando e facendo parlare Dio in modo non solo corretto e convincente, ma anche particolarmente ricco e penetrante di chi spera contro ogni speranza.
Preghiamo: “Stai con me, e io inizierò a risplendere come tu risplendi, risplendere fino ad essere luce per gli altri. La luce, o Gesù, verrà tutta da te: nulla sarà merito mio. Sarai tu a risplendere, attraverso di me, sugli altri. Fa’ che io ti lodi così, nel modo che tu più gradisci, risplendendo sopra tutti coloro che sono intorno a me. Da’ luce a loro e da’ luce a me;illumina loro insieme a me, attraverso di me. Insegnami a diffondere la tua lode, la tua verità, la tua volontà. Fa’ che io ti annunci non con le parole ma con i l’esempio, con quella forza attraente, quella influenza solidale che proviene da ciò che faccio, con la mia visibile somiglianza ai tuoi santi, e con la chiara pienezza dell’amore che il mio cuore nutre per te“.
Maria, madre della Parola, insegnaci a “fare quello che Egli ci dirà”… a rispondere con generosità ed entusiasmo alla chiamata che santifica e rinnova la storia.