Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?

26 Nov 2009 | 1999-2003, Convegni

“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8)

La fede e le ragioni della non credenza

di

Bruno Forte

L’ateo, il solo ateo che sia possibile concepire con radicale serietà, abita nel credente, perché solo chi crede in Dio, e ha fatto esperienza del Suo amore, può anche “sapere” che cosa sia la Sua negazione e quale infinito dolore comporti la Sua assenza. Perciò, il non credente non è fuori di me, ma è in me che credo, ed è con lui che in questa riflessione vorrei dialogare da teologo, che pone in pensiero la fede e da essa è posto in pensiero. Il teologo è il prigioniero dell’Altro: egli porta al pensiero la semplice verità della fede, il lasciarsi far prigionieri dell’invisibile, non immediatamente disponibile e certo. Il teologo perciò non ha un pensiero totalizzante, luminoso su tutto, ma vive in una sorta di pensiero notturno, assetato dell’aurora, carico di attesa, sospeso tra il primo e l’ultimo avvento, già confortato dalla luce che è venuta a splendere nelle tenebre e tuttavia ancora assetato di aurora. Come aurora è il pensiero della fede. Non ancora pienamente illuminato dal giorno che appartiene ad un altro tempo e ad un’altra patria e tuttavia sufficientemente rischiarato per sopportare la fatica di conservare la fede. Teologia dei pellegrini è ogni teologia, theologia viatorum, pensiero rapsodico, provvisorio, umile certamente, e tuttavia appeso a quella Croce, che è e resta nella notte del mondo il punto di riferimento, la stella della redenzione.

Anche per un altro motivo, però, l’altro è l’altra parte di me, che credo. Non solo perché, come teologo, non ho la parola compiuta, esaustiva su tutto, ma anche perché l’altro, il cosiddetto non credente, il cosiddetto ateo, quando è veramente e fino in fondo tale, quando lo è cioè non per una semplice qualificazione esteriore, ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in Lui, vive in una medesima condizione di ricerca e di infinito dolore. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che ti lasci come ti ha trovato. La non credenza è passione, è sofferenza, è militanza di una vita che paga di persona l’amaro coraggio di non credere. Lo mostra il celebre aforisma 125 della Gaia Scienza, dove Nietzsche racconta del folle che nella chiara luce del mattino andò sulla piazza del mercato, tenendo accesa la lucerna e gridando: “Cerco Dio, cerco Dio”. “Dov’è Dio? Si è addormentato o si è perso come un bambino?” – domandano gli altri, prendendosi gioco di lui. E lui grida le parole, che segnano il destino di un’epoca: “Dio è morto… e noi lo abbiamo ucciso!” Ma subito dopo quelle parole aggiunge: “Saremo noi degni della grandezza di questa azione?” E denuncia la verità del dolore infinito di non credere, il senso di abbandono, di orfananza, che ne consegue. Ogni non banale non credere resta indissociabile dall’infinito dolore dell’assenza, da un senso di orfananza e d’abbandono, quale solo la morte di Dio può creare nel cuore dell’uomo, nella storia del mondo.

Lo stesso senso di lacerazione profonda si trova nella pagina, che segna l’inizio del tema della morte di Dio nella coscienza europea: è il Sogno del Cristo morto, scritto sul finire del XVIII secolo da Jean Paul Richter, poeta romantico tedesco. È un racconto, che parla con la forza della metafora: “In una sera d’estate me ne stavo disteso su un monte in faccia al sole, finché mi colse il sonno. Ed ecco che sognai di svegliarmi in un campo di morti. Tutte le ombre erano disposte intorno all’altare e a tutte, invece del cuore, tremava e pulsava il petto. Ed ecco che precipitò sull’altare una nobile figura atteggiata a un dolore senza fine. E tutti i morti gettarono un grido: “Cristo, Cristo, esiste un Dio?”. L’ombra di ogni defunto fu scossa da un sussulto e a cagione di quel tremito l’uno si trovò disgiunto dall’altro. Cristo parlò: “Andai per i monti, entrai nei soli e nelle vie lattee, percorsi i deserti del cielo, ma non esiste alcun Dio. Scesi nell’abisso, scrutai nella voragine e gridai: Padre dove sei? Ma udii solo l’eterna procella che nessuno governa e lo sfavillante arcobaleno di esseri che stava lassù senza un sole che lo avesse creato… tutto, tutto era un grande vuoto”. I fanciulli defunti che si erano destati nel cimitero si gettarono dinanzi all’alta figura presso l’altare e gridarono: “Gesù, non abbiamo noi un padre?”. E lui prorompendo in lacrime disse: “Noi siamo tutti orfani, io e voi. Non abbiamo alcun padre”. E tutto si fece angusto, tetro angoscioso. Un battaglio enormemente grande stava per battere l’ultima ora del tempo per frantumare l’universo, quando mi ridestai. La mia anima piangeva dalla gioia di poter ancora adorare Dio”. Quale pagina meglio di questo racconto potrebbe mostrare come il non credere sia indissociabile dall’infinito dolore dell’assenza, dal senso di orfananza e d’abbandono, quale solo la morte di Dio può creare nel cuore dell’uomo, nella storia del mondo?

Il non credente, come il credente, è un uomo che lotta con Dio. “Mi religion es luchar con Dios”: secondo la confessione di Miguel de Unamuno, il testimone del “sentimiento tragico de la vida”, la religione è tutta qui: “lottare con Dio”. E poichè “vivir es anelar la vida eterna”, il vivere è inesorabilmente segnato dalla tragicità di dover sostenere l’impari lotta. È nel rispetto di questa altissima dignità del non credere, che il credente dovrebbe interrogarsi sulla fede.

1. La “condition humaine”

Ad uno sguardo immediato, vivere appare come un inesorabile essere “gettati verso la morte”. L’immediata evidenza è che la vita sia un lungo viaggio verso le tenebre, che prima o poi ci aspettano come l’ultima sponda, l’assoluto silenzio: per questo la vita è impastata di dolore. L’unica vera domanda, quella sulla quale sta o cade la verità di ogni risposta, è e resta la domanda del dolore. Il pensiero nasce dal dolore. Se non esistesse la morte non esisterebbe il pensiero, non esisterebbe la vita, cioè la vita del pensiero, che è poi la dignità del vivere di ciascuno di noi. È il patire, il morire che suscita in noi la domanda, accende la sete di ricerca, lascia aperto il bisogno di senso. Senza dolore non ci sarebbe la dignità dell’uomo che cerca, dell’interrogante. Il dolore rivela allora la vita a se stessa più fortemente della morte, che lo produce, perché insegna che noi non siamo semplicemente dei gettati verso la morte, ma dei chiamati alla vita. È questo l’itinerario del pensare: dalla morte ci facciamo pellegrini verso la vita. Il cammino dell’uomo sta tutto in questo prendere sul serio la tragicità della morte, non fuggendola, non stordendosi rispetto ad essa, non nascondendola, come ha fatto troppo spesso la modernità. Se guardiamo negli occhi la morte, allora si compie il miracolo: vivere non sarà più soltanto un imparare a morire, ma sarà un lottare per dare senso alla vita. Dove nasce la domanda, dove l’uomo non si arrende di fronte al destino della necessità, e quindi alla morte, che vince col suo silenzio tutte le cose, lì si rivela la dignità della vita, il senso e la bellezza di esistere. Lì l’essere umano capisce di non essere gettato verso la morte, ma chiamato alla vita: lì si riconosce, per usare un’espressione potente di Maritain, come “un mendicante del cielo”. L’uomo è un cercatore di senso, qualcuno che cerca la parola che riesca a vincere l’ultimo orizzonte della morte e dia valore alle opere e ai giorni, ed offra dignità e bellezza alla tragicità del nostro vivere e del nostro morire. Perciò la condizione dell’essere umano è quella del pellegrino. L’uomo non è qualcuno che sia arrivato alla meta, ma è un cercatore della patria lontana, è chi da questo orizzonte si lascia permanentemente provocare, interrogare, sedurre.

Se l’uomo è un pellegrino verso la vita, un mendicante del cielo, la grande, vera tentazione mortale è quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivati, non più esuli in questo mondo, ma possessori, dominatori di un oggi che vorrebbe fermare la verità del cammino. “L’esilio vero d’Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo” (I racconti dei Chassidim, a cura di M. Buber, Milano 1979, 647): il vero esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c’è più nel cuore la struggente nostalgia della patria. Martin Heidegger, parlando della “notte del mondo” nella quale ci troviamo, dice che la malattia dell’uomo moderno è l’assenza di patria, e che il dramma dell’epoca moderna non è la mancanza di Dio, ma il fatto che gli uomini non soffrano più di questa mancanza, e perciò non avvertano più il bisogno di superare l’infinito dolore della morte, considerando esilio e non patria questo tempo presente. L’illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi soddisfatti, sazi, compiuti nella propria vicenda, questa è la malattia mortale. Tu sei morto non nel giorno in cui morirai. Tu sei morto nel giorno in cui penserai di essere sazio e compiuto. Tu sei morto quando il tuo cuore non vivrà più l’inquietudine e la passione del domandare, il desiderio del cercare ancora, di trovare, per ancora nuovamente domandare e cercare.

Questo vale anche per la via di Dio: anche nell’esperienza dell’incontro con Lui la grande tentazione è quella di fermare la vita. San Bernardo diceva: “Sulla via di Dio non può darsi sosta, perfino l’indugio è peccato”. Quando non si ha più il gusto, il desiderio di cercare, quando ci si ferma, allora ci si allontana da Dio. È questo il senso più profondo della legge della Croce. Il cristiano annuncia un verbum Crucis, una parola scandalosa, che lo inquieta sempre, perché sa bene che la grande scelta è questa: crocifiggere le proprie attese sulla croce di Cristo e dunque lasciarsi turbare da Lui, o crocifiggere Cristo sulla croce delle proprie attese e dunque pretendere di aver posseduto il Cristo, di averlo catturato. Nella Leggenda del Grande Inquisitore Dostoevskij racconta come sulla piazza di Siviglia, dove ardono i roghi degli eretici, un uomo sia stato trovato a guardare in silenzio la scena di aberrante dolore. Portato davanti al Cardinale Inquisitore, ne ascolta in silenzio le domande ed è il suo silenzio che fa capire al vecchio custode della fede che quell’uomo è il Cristo. La reazione del Cardinale Inquisitore è dura: “Sei Tu, sei Tu?… Non risppondere, taci. E che potresti dire? So troppo bene quel che puoi dire. Del resto, non hai il diritto di aggiungere nulla a quello che Tu già dicesti una volta. Perché sei venuto a disturbarci? Sei venuto infatti a disturbarci”. La scena si conclude con il bacio con cui Cristo saluta il grande Inquisitore. Il senso di questa pagina si coglie quando si comprende che il grande Inquisitore crede di compiere il più grande degli atti d’amore. Togliendo agli uomini la libertà, egli sa di renderli felici, perché li solleva dal peso dolorosissimo di dover continuamente cercare e scegliere. L’uomo cerca un simile padrone. L’Inquisitore ama “troppo” gli uomini per dare loro la libertà! Ma Cristo smentisce la presunta verità di questo ragionamento. Cristo è l’uomo libero che chiama l’uomo alla libertà. Egli sa che anche se la libertà ha un prezzo grande, vale sempre la pena di essere vissuta. Egli sa che l’uomo acquietato dall’assenza di libertà sarà forse apparentemente reso felice, ma un uomo che non cerca più nulla, che si soddisfa del suo presente, non sarà più uomo. L’uomo è chiamato alla libertà, anche se questa chiamata ha un nome: la Croce. La Croce è il vangelo della libertà! Ecco dunque che cosa Dostoevskij ha voluto dirci: l’uomo che si ferma, l’uomo che si sente padrone e sazio della verità, l’uomo per il quale la verità non è più qualcuno da cui essere posseduto sempre più profondamente, ma qualcosa da possedere, quell’uomo ha ucciso in se stesso, non solo Dio, ma la propria dignità di essere umano.

La condizione umana è dunque una condizione esodale: l’uomo è in esodo, in quanto è chiamato permanentemente ad uscire da sé, ad interrogarsi, ad essere in cerca di una patria. Martin Lutero avrebbe detto sul letto di morte: “Wir sind Bettler: hoc est verum!” – “Siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità”. Sono parole dette da un “homo religiosus” alla sera della vita, quando è ormai sulla soglia del mistero liberante per inabissarsi in esso e tutto vede nella verità che non mente: “Siamo dei poveri mendicanti: hoc est verum!”.

2. Il Dio, che “ha tempo” per l’uomo

Il Dio della fede dei cristiani è il Dio dell’avvento, il Dio che ha tempo per l’uomo. Il Dio che viene è certo venuto una volta, ma, venendo quella volta, ha dischiuso un cammino, ha acceso un’attesa, ancora più grande del compimento realizzato. Perciò, nella tradizione cristiana l’avvento di Dio nella storia è pensato come revelatio, una rivelazione: è uno svelarsi, che vela, un venire, che apre cammino, un ostendersi nel ritrarsi, che attira. Negli ultimi secoli la teologia cristiana ha concepito la rivelazione soprattutto come Offenbarung, apertura, manifestazione totale. Così, in essa l’avvento di Dio è stato facilmente pensato come esibizione senza più riserve. Dio si è detto, si è consegnato nelle nostre mani. Egli si è fatto storia, tanto che la storia – dirà Hegel- è il “curriculum vitae Dei”, il pellegrinaggio di Dio per divenire se stesso. Con feroce parodia Nietzsche affermerà che questo “Dio è diventato finalmente comprensibile a se stesso nel cervello hegeliano”. Sta qui il filo rosso che lega Hegel al concetto della Offenbarung ed in cui si esprime il senso dell’intera ideologia moderna. Ma da principio non fu così: interpretare la rivelazione come manifestazione totale, come pensiero solare, come apertura incondizionata e senza riserve, è il più grande tradimento che di essa si possa fare. È allora necessario liberarsi dal fraintendimento radicale del concetto di rivelazione. Perché revelatio è, sì, un togliere il velo, ma è anche un più forte nascondere. Re-velare è anche un’intensificazione dello stato del velare, un nuovamente velare.

Dio, rivelandosi, non si è soltanto detto, ma si è anche più altamente taciuto. Rivelandosi Dio si vela. Comunicandosi si nasconde. Parlando si tace. Maestro del desiderio Dio è colui che dando a te se stesso, al tempo stesso si nasconde al tuo sguardo. Dio è colui che rapendoti il cuore, chiamandoti a perdutamente consegnarti a Lui, sembra a te sempre nuovo e lontano. Dio! Il Dio rivelato e nascosto, absconditus in revelatione – revelatus in absconditate! Questo è il Dio dell’avvento. Perciò, la rivelazione non è ideologia: non una visione totale è quella che ci viene data nell’avvento del Dio per noi, ma è la parola che ci schiude i sentieri abissali del silenzio. Questa intuizione fin dalle origini cristiane è presente nella coscienza della fede: Cristo è “il Verbo procedente dal silenzio” (Sant’Ignazio di Antiochia). San Giovanni della Croce in una delle sue Sentenze d’amore dice: “Il Padre pronunciò la Parola in un eterno silenzio, ed è in silenzio che essa deve essere ascoltata dagli uomini”. Il luogo della Parola, l’origine della Parola è il Silenzio. Questo Silenzio col linguaggio del Nuovo Testamento lo chiamiamo Padre. Il Padre genera la Parola, il Figlio. E noi accoglieremo la Parola, ed essa sarà per noi la porta e la via, se, ascoltandola, la trascenderemo verso il Silenzio della sua origine. Obbedisce veramente alla Parola chi “tradisce” la Parola, chi non si ferma alla lettera, ma ruminando la Parola, scava in essa per entrare nei sentieri del Silenzio. Perciò è doveroso non pronunciare mai la Parola, senza prima aver lungamente camminato nei sentieri del Silenzio. Questo ci dice la rivelazione cristiana: Dio è Parola, Dio è Silenzio. La Parola è e resta l’unico accesso al Silenzio della divinità, l’indispensabile luogo a cui resteremo appesi, come inchiodati alla Croce. Tuttavia, ameremo la Parola, l’ascolteremo veramente quando l’avremo trascesa per camminare verso le profondità del Silenzio. Questo ci hanno insegnato a fare i nostri padri nella fede: la “lectio divina”, la “ruminatio Verbi” non sono che vie per imparare ad ascoltare nella Parola il Silenzio da cui essa proviene, l’abisso che essa dischiude.

Credere nella Parola dell’avvento sarà allora lasciare che la Parola, schiudendo i sentieri del Silenzio, ci contagi questo Silenzio fecondo, accogliente. Il Silenzio, che è il far vivere e risuonare in noi la Parola come nel grembo della Vergine, è l’ombra dello Spirito. Così, la Parola sta fra due silenzi, il Silenzio dell’origine e il Silenzio della destinazione o della patria, il Padre e lo Spirito Santo. Tra questi due Silenzi – gli “altissima silentia Dei” – è la dimora della Parola. Ed io accoglierò il Dio dell’avvento, il Dio della Parola, il Dio che viene, se in questa Parola troverò l’accesso agli abissi del Silenzio, e se, camminando in essa e attraverso di essa nei sentieri del Silenzio, lascerò che questa Parola mi abiti, si ripeta in me, si dica nel mio silenzio, affinché io stesso divenga il riposo della Parola, il luogo dove la Parola si lascia custodire, come nel grembo verginale della donna che ha detto “sì” al mistero dell’avvento. Il Dio dell’avvento non è dunque il Dio volgare delle risposte pronte a tutte le domande, non è il Dio ideologico delle certezze a buon mercato da vendere sulla fiera del consumismo delle idee, ma il Dio esigente, che amandoti e donandosi a te si nasconde e ti chiama a uscire da te in un esodo senza ritorno che ti porti negli abissi del suo Silenzio, ultimo e primo. Questo è l’incontro con l’avvento.

3. La fede, dove l’esodo incontra l’Avvento e l’uomo ha tempo per Dio

La condizione umana è un permanente uscire da sé per lottare contro la morte e camminare verso la vita: in essa l’uomo viene raggiunto dalla Parola che viene dal Silenzio, da quel Dio, cioè, che ha tempo per l’uomo. Dio esce dal silenzio perché la nostra storia entri nel Silenzio della patria e vi dimori. L’incontro dell’umano andare e del divino venire, l’alleanza dell’esodo e dell’avvento è la fede. Essa è lotta, agonia, non il riposo tranquillo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver fede senza lottare, non crede più in nulla. La fede è l’esperienza di Giacobbe. Dio è l’assalitore notturno. Dio è l’Altro. Se tu non conosci così Dio, se Dio per te non è fuoco divorante, se l’incontro con Lui è per te soltanto tranquilla ripetizione di gesti sempre uguali e senza passione d’amore, il tuo Dio non è più il Dio vivente, ma il “Deus mortuus”, il “Deus otiosus”. Perciò Pascal affermava che Cristo sarà in agonia fino alla fine del tempo: questa agonia è l’agonia dei cristiani, è l’agonia del cristianesimo, la lotta di credere, di sperare, di amare, la lotta con Dio! Dio è altro da te, ed è libero rispetto a te come tu sei altro da Lui e libero rispetto a Lui. Guai a perdere il senso di questa distanza e, dunque, di questa sofferenza della non identità! Credere è cor-dare, dicevano i Medievali, un dare il cuore che implica la continua lotta con una alterità che non viene “risolta”, non viene “fermata”. Dio è l’altro da te. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede.

La fede è consegnarsi ciecamente all’Altro: “Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso… Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!” Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,7. 9). Nelle “Confessioni” di Geremia troviamo forse la più alta testimonianza di questa resa della fede: egli è un uomo che ha vissuto la lotta con Dio, ma che lottando ha saputo conoscere la capitolazione dell’amore al punto da essere pronto a consegnarsi perdutamente a Lui. Così la fede diventa anche una conquista di bellezza e di pace. Non la bellezza che il mondo conosce. La bellezza che salverà il mondo non è la seduzione, l’incontro di una verità totale, “euclidea”, che spieghi tutto. La sola bellezza che salverà il mondo è la bellezza dell’Uomo dei dolori, è la bellezza dell’amore crocifisso, della vita donata, dell’offerta totale di sé al Padre e agli uomini. La gioia della fede è nell’essere discepoli del Crocifisso. San Bernardo lo ha detto con una frase scolpita nella potenza della fede: “Amaritudo ecclesiae sub tyrannis est amara, sub haereticis est amarior, sed in pace est amarissima”. “L’amarezza della Chiesa è amara quando la Chiesa è perseguitata, è più amara quando la Chiesa è divisa, ma è amarissima quando la Chiesa se ne sta tranquilla e in pace”. La vera pace della fede, la vera gioia che il mondo non conosce, la bellezza che sola salverà il mondo, non è l’assenza di lotta, di agonia, di passione, ma è il vivere perdutamente arresi all’Altro, allo Straniero, che invita, al Dio vivente.

La fede è scandalo. Infinite sono le testimonianze di questo scandalo. Con parola netta Kierkegaard dice: “Non si giunge mai alla fede senza passare per la via dello scandalo”. Giovanni della Croce parla della “noche oscura”, in maniera non meno scandalosa: “Notte che mi guidasti! / oh, notte più amabile dell’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata”. La notte oscura è il luogo delle nozze mistiche: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della Croce, nella morte a se stessi, della notte dei sensi e dello spirito. Santa Teresa del Bambino Gesù non ha paura di descrivere lo scandalo: “Gesù mi ha fatto sentire che esistono davvero anime senza fede. Ha permesso che l’anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, che il pensiero del cielo, dolcissimo per me, non fosse più se non lotta e tormento… Bisogna aver viaggiato in questa tenebra per capire che cosa essa è. So che il paese nel quale sono nata non è la mia patria. So che ce n’è un’altra alla quale devo aspirare incessantemente. Non è una storia inventata, è una realtà sicura, perché il re della patria luminosa è venuto a vivere 33 anni nel paese delle tenebre. Ma, ahimè, le tenebre non hanno capito che quel re divino era la luce del mondo. Ma, Signore, la vostra figlia ha capito la vostra luce divina. Vi chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di nutrirsi, per quanto tempo voi vorrete, del pane del dolore, e non vuole alzarsi da questa tavola colma d’amarezza, alla quale mangiano i poveri peccatori, prima del giorno che voi avete segnato. Ma anche lei osa dire a nome proprio e dei suoi fratelli, abbiate pietà di noi, Signore, perché siamo poveri peccatori”. La tenebra, la notte è il luogo dell’amore, della pace. È in essa che la fede è scandalo: la fede non è la risposta tranquilla alle nostre domande, come non lo è Cristo. Cristo è anzi la sovversione di ogni nostra domanda, e solo dopo averci portato nel fuoco della desolazione, egli diviene il Dio delle consolazioni e della pace. Solo dopo che noi ciecamente lo abbiamo seguito e perdutamente abbiamo accettato di amarlo dove e come Lui vorrà, Egli diviene la sorgente della gioia che non conosce tramonto.

Se tutto questo è vero, allora non saranno i risultati che noi dovremo cercare, non dovremo voler vedere dei segni volgari che dimostrino la verità di Colui in cui crediamo. Noi crederemo in Dio anche quando la risposta alle nostre domande, alle vere domande del nostro dolore, resterà custodita nel Suo silenzio. Sì, Dio è Custodia. In Lui resta custodita la Parola della vita. Perciò, il credente non è in fondo che un povero ateo, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. Se il credente non fosse tale, la sua fede non sarebbe niente altro che un dato sociologico, una rassicurazione mondana, una delle tante ideologie che hanno ingannato il mondo e determinato l’alienazione dell’uomo. La sua luce resterebbe quella del tramonto delle ideologie: “La terra interamente illuminata risplende di trionfale sventura” (Horkheimer – Adorno). Diversamente da ogni ideologia, la fede è un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare. Ma se il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, non sarà forse l’ateo, il non credente, un credente che ogni giorno vive la lotta inversa, e cioè la lotta di cominciare a non credere? Non certo l’ateo banale, volgare, ma chi vive la lotta vera con coscienza retta, chi, avendo cercato e non avendo trovato, patisce l’infinito dolore dell’assenza di Dio, non sarà veramente l’altra parte di chi crede? Non è la più alta forma di eticità questo riconoscere nell’altro, nel diverso, non un pericolo, ma un dono, un incontro? E questo non ci farà amare l’altro come è, per quello che è, cercando in lui la verità di noi stessi e offrendogli umilmente, ma al tempo stesso fiduciosamente, la verità di noi stessi? Non viene da tutto questo un unico no, il no alla negligenza della fede, il no ad una fede indolente, statica ed abitudinaria, fatta di intolleranza comoda, che si difende condannando perché non sa vivere la sofferenza dell’amore? E non ne viene il sì ad una fede interrogante, anche dubbiosa, ma capace ogni giorno di cominciare a consegnarsi perdutamente all’altro, a vivere l’esodo senza ritorno verso il Silenzio di Dio, dischiuso e celato nella Sua Parola?

Se c’è una differenza da marcare, allora, non sarà quella tra credenti e non credenti, ma l’altra tra pensanti e non pensanti, tra quanti hanno il coraggio di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e quanti hanno rinunciato alla lotta e sembrano accontentarsi dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria. Qualunque atto, anche il più costoso, sarebbe degno di essere vissuto per riaccendere in noi il desiderio della patria vera, e il coraggio di tendere ad essa, fino alla fine, oltre la fine…