DIRITTO E MORALE: ANTROPOLOGIA GIURIDICA
Nel vostro lavoro di Magistrati, di Avvocati o comunque di professionisti impegnati nel mondo giudiziario o del diritto in genere, voi avete affrontato i vari problemi riguardanti, non l’obbligatorietà in coscienza della legge divina — ciò che è ovvio —, ma l’obbligatorietà delle norme date dal legislatore umano, ed anche i limiti di quest’obbligatorietà. Infatti, è vero che esiste nella società umana un obbligo morale di vivere in conformità con il diritto. Essendo la socialità una dimensione naturale della persona umana, l’osservanza delle leggi rappresenta la risposta personale dell’uomo alla responsabilità sociale e morale del suo vivere in comunità. Tuttavia, quest’obbligatorietà morale ha i suoi limiti, perché può darsi che alcune prescrizioni del diritto positivo entrino in conflitto con i dettami della propria coscienza, soprattutto per chi cerca di formare la propria coscienza secondo gli insegnamenti della propria fede religiosa. Questo conflitto può sorgere perché si considera che la prescrizione di una data legge è immorale, oppure perché, pur essendo la legge moralmente giusta, non lo è nell’applicazione ad un caso concreto.
Perciò, nel massimo rispetto delle vostre opinioni in merito, io vorrei soltanto fare qualche modesta considerazione al riguardo. Mi riferirò ai conflitti tra il diritto e la morale che vengono segnalati riguardo alle istituzioni giuridiche — anche democratiche —, quando non si rispettano sufficientemente le esigenze dell’antropologia giuridica, cioè della centralità della persona nel diritto.
L’attuale crisi del diritto
Loro sanno bene che — a causa anche di atti legislativi o sentenze giudiziarie che hanno sconvolto l’opinione pubblica — il mondo del diritto, in tutta la sua ampiezza (attività legislativa, giurisprudenza dei tribunali, rapporti della magistratura col potere esecutivo, ecc.), è oggetto nel nostro tempo di specialissima attenzione, certamente in Italia, ma anche in tutte le nazioni occidentali a struttura democratica. Questa generale attenzione, che coinvolge soprattutto l’impegno intellettuale dei filosofi del diritto, dei magistrati e dei sociologi, ma anche dei moralisti, dei teologi e dello stesso Magistero ecclesiastico, sta mettendo in evidenza luci e ombre, conquiste di civiltà ma anche processi degenerativi del diritto positivo. Questi processi — che rendono difficile e talvolta impossibile — dichiarare il giusto (to dikaion), la res iusta, il suum cuique tribuendum, in cui da Aristotele[1] e Ulpiano[2] a San Tommaso[3] e ai moderni cultori del realismo giuridico — cristiani e non cristiani — si è fatto considerare l’essenza del diritto quale oggetto della giustizia.
Tra le luci evidenziate da queste riflessioni va particolarmente segnalato il fenomeno molto positivo dell’accresciuta consapevolezza dei diritti fondamentali dell’uomo, ciò che ha contribuito a mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista: la persona umana, la sua dignità e libertà. Infatti, loro sanno bene che il diritto in quanto ordinamento è rappresentato dall’insieme di norme e di rapporti che ordinano e organizzano gli uomini in comunità sociale, ma si è avuta una progressiva presa di coscienza che tale ordinamento si deve strutturare e continuamente perfezionare tenendo presente che è proprio la persona umana il fondamento e il fine della vita sociale. Tutto ciò — evidenziato anche nella « Dichiarazione Universale dei Diritti Umani » — rappresenta un grande progresso giuridico, non solo democratico.
Simultaneamente, però, si è rilevato — e non solo nelle riflessioni scientifiche degli storici e dei filosofi del diritto, ma anche nelle semplici valutazioni pragmatiche dell’uomo della strada — l’esistenza di una assai generalizzata crisi del senso in campo giuridico: un’amara percezione cioè del progressivo impoverimento etico delle leggi e, perciò, del valore pedagogico del diritto, insieme ad una conseguente mancanza di fiducia nell’efficacia delle leggi medesime. Esse, infatti, si dimostrano spesso incapaci di tutelare realmente la dignità della persona, e lo stesso bene comune della società, che non può essere ridotto con una miope visione minimalista e materialista al solo benessere economico o edonistico dell’individuo.
C’è stato, infatti, nella società cosiddetta “secolarizzata”, successiva alla ormai logora filosofia illuministica, un crescente divario tra diritto positivo e diritto naturale, per cui le norme giuridiche degli Stati o quelle raccomandate dalle assemblee politiche sopranazionali (si pensi, per esempio, ad alcune recenti risoluzioni parlamentari sulla legalizzazione della droga, dell’eutanasia o delle manipolazioni eugenetiche degli embrioni umani, oppure sulla assimilazione al « matrimonio » e alla « famiglia » delle unioni tra omosessuali) provocano spesso confusione, sgomento e conflitti di coscienza nei cittadini. Inoltre, i diritti dell’uomo vengono frequentemente invocati in modo strumentale — come nei tristi esempi sopra menzionati —, difendendoli o negandoli a seconda di scelte politiche ed economiche arbitrarie. Tutto ciò fa sì che il rispetto per l’autorità pubblica o per le istituzioni si affievolisca, e conseguentemente si moltiplicano i fenomeni di delinquenza, anche minorile, nonché le situazioni di illegalità e di conflittualità sociale.
Si può dire che sociologicamente assistiamo oggi ad una percezione del diritto come una realtà piuttosto convenzionale, contingente e individualista, vista soprattutto come strumento politico di forza al servizio d’interessi soggettivi o di gruppo, spesso immorali (gli idoli del denaro, del potere o del puro edonismo), ignari, di fatto, di quei veri interessi sociali e valori etici della comunità, che gli Stati ed i loro ordinamenti dovrebbero invece assicurare e promuovere. E ciò sta diventando particolarmente evidente in Europa.
Dopo aver ricordato le mostruosità giuridiche e sociali dei totalitarismi marxista e nazista, Giovanni Paolo II, parlando al mondo accademico e della cultura in una nazione appena uscita dalla dittatura comunista, ebbe a dire: « D’altra parte, le stesse democrazie, organizzate secondo la formula dello Stato di diritto, hanno registrato e ancora oggi presentano vistose contraddizioni tra il formale riconoscimento della libertà e dei diritti umani e le tante ingiustizie e discriminazioni sociali che tollerano nel proprio seno. Si tratta, in effetti, di modelli sociali in cui il postulato della libertà non sempre si coniuga con quello della responsabilità etica. Il rischio dei regimi democratici è di risolversi in un sistema di regole non sufficientemente radicate in quei valori irrinunciabili, perché fondati sull’essenza dell’uomo, che debbono essere alla base di ogni convivenza, e che nessuna maggioranza può rinnegare senza provocare funeste conseguenze per l’uomo e per la società (…) Totalitarismi di opposto segno e democrazie malate hanno sconvolto la storia del nostro secolo »[4].
Ma viene subito la domanda: quando e perché si è ammalata la democrazia, lo “Stato di diritto”, sistema che doveva appunto difendere la dignità e la libertà dell’uomo di fronte ai regimi politici e giuridici totalitari? È lo stesso Giovanni Paolo II a dare la risposta: « I sistemi che si sono avvicendati e contrapposti hanno ciascuno la sua propria inconfondibile fisionomia, ma non credo che ci si sbagli considerandoli tutti figli di quella cultura dell’immanenza che si è largamente affermata nell’Europa degli ultimi secoli, inducendo a progetti di esistenza personale e collettiva ignari di Dio e irrispettosi del suo disegno sull’uomo »[5]. A me sembra che questa affermazione vada attentamente meditata non soltanto dai credenti, ma da ogni politico serio e da ogni intellettuale e uomo di diritto che non si arrocchi testardamente nel dogma dell’agnosticismo etico e del positivismo giuridico. Peccato che anche al noto politologo americano Robert Dahl, autore del ponderoso studio La Democrazia e i suoi critici, sia sfuggita la fallacia intellettuale di un tale dogma immanentista e positivista.
La « razionalità » delle leggi
È un dato storico — basta leggere senza pregiudizi il Contratto sociale di Rousseau — che la società democratica è nata da una filosofia sociale il cui populismo e pluralismo politico, nonostante tutti i suoi limiti e debolezze, non metteva affatto in dubbio l’esistenza di una verità oggettiva sulla persona umana e di universali valori morali da rispettare. Democrazia era la forma di eleggere i governanti, di dettare leggi e di decidere — entro determinati limiti — i loro contenuti, di distinguere i tre poteri — legislativo, esecutivo e giudiziario — e garantirne la loro indipendenza, di controllare l’esercizio della funzione pubblica di governo ed assicurarne la legalità. Ma era fuori questione che questi governanti e questi giudici dovevano rispettare quel patrimonio di civiltà, di verità e di valori morali oggettivi, che era radicato o comunque si presumeva che doveva esserlo nelle coscienze dei cittadini, cristiani o non cristiani. Anzi, il diritto, le leggi e la giurisprudenza avevano anche in questo un altissimo valore pedagogico per il popolo.
Giustamente è stato rilevato da filosofi come Maritain, Del Noce o Possenti e da giuristi come Cotta, Hervada, Finnis o Waldstein, ma l’elenco si potrebbe allungare, che i classici anteriori al dilagare dogmatico dell’ideologia liberal—agnostica interpretarono sempre la democrazia come un ordinamento sociale di libertà avente margini naturali[6]. Non con dei limiti esteriori, imposti autoritariamente dal di fuori (tendenza totalitaria) oppure imposti tramite un semplice e onnicomprensivo accordo pattizio (tendenza liberal-radicale), ma con dei margini aventi un fondamento intrinseco: la legge naturale, il diritto naturale o ius gentium. Purtroppo, l’ideologia liberal-radicale, fondata sull’agnosticismo religioso e il relativismo morale, nel togliere alla democrazia il suo fondamento di principî e di valori oggettivi, ha sfumato pericolosamente i limiti della razionalità e della legittimità della norma. Ciò ha indebolito profondamente l’ordinamento giuridico democratico di fronte alla tentazione di una libertà denaturalizzata: di una libertà, cioè, senza i limiti veramente liberatori della verità oggettiva sulla dignità dell’uomo e su alcuni inalienabili diritti della persona umana (diritti, cioè, veri: non staccabili dalla natura dell’uomo).
Di fronte all’evidenza sociale di questa crisi del diritto e della legalità, voi sapete che i dogmatici del positivismo giuridico e della cosiddetta etica laica (io direi laicista) cercano affannosamente criteri validi per uscire dalla crisi, criteri che possano fornire fondamenti solidi alle decisioni giuridiche, ai programmi politici, ai loro progetti sociali. Ma tali criteri non arrivano oltre quelli che sono capaci di offrire concetti come l’opinione maggioritaria, l’ordine di valori democraticamente riconosciuto oppure quello che si è ormai soliti chiamare la verità convenzionale[7]. La ragione è ovvia: la filosofia radical-liberale o libertaria in cui essi si ispirano rende impossibile l’affermazione di una verità oggettiva sull’uomo, di una verità cioè incondizionale: che sia indipendente dal numero, che consista più che nelle convenzioni nelle convinzioni, che non si lasci ridurre alle sole opinioni personali e al mero ordine di valori riconosciuti de facto in una società, che sia in una parola una verità naturale non artificiale, oggettiva non soggettiva, che — come dimostra la storia stessa della cultura — si presenta alla ragione prima ancora che essa sia illuminata dalla rivelazione cristiana. Di una verità insomma che precede e che va oltre il concetto stesso di democrazia e che da questa non può essere negata.
La dottrina sociale della Chiesa — lodata e seguita anche da molti intellettuali non cattolici — insegna che: « una autentica democrazia è possibile solo in uno stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana »[8]. Orbene uno Stato di diritto non è quello in cui la volontà del cittadino diventa fonte esclusiva di ogni valore e di ogni verità sull’uomo, di ogni principio morale e di ogni legge, come se la maggioranza dei voti generasse automaticamente l’autonomia assoluta della legge riguardo alla morale e potesse sottrarre le istituzioni e le strutture pubbliche della convivenza sociale ad ogni condizionamento di carattere etico. Uno Stato di diritto è quello in cui le leggi tutelano i diritti fondamentali della persona umana, primi di tutti il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa. « Si tratta — ha ricordato Giovanni Paolo II — di diritti naturali, universali e inviolabili; nessuno, né il singolo, né il gruppo, né l’autorità, né lo Stato li può modificare né tanto meno li può eliminare »[9]. La democrazia — insegna ancora il Papa — « non implica che tutto si possa votare, che il sistema giuridico dipenda soltanto della volontà della maggioranza e che non si possa pretendere la verità nella politica. Al contrario bisogna rifiutare con fermezza la tesi secondo la quale il relativismo e l’agnosticismo sarebbero la migliore base fIlosofica per una democrazia, visto che quest’ultima per funzionare esigerebbe da parte dei cittadini l’ammettere che sono incapaci di comprendere la verità (…) Una tale democrazia rischierebbe di trasformarsi nella peggiore delle tirannie »[10].
Purtroppo bisogna constatare che nella seconda metà del secolo XXº l’agnosticismo religioso ed il relativismo morale, frutti amari dell’immanentismo filosofico e falsamente liberale hanno configurato nell’Occidente un tipo di società democratica prevalentemente materialista e permissiva, avulsa non già delle verità trascendenti e religiose sul destino eterno dell’uomo, ma anche di elementari esigenze della morale naturale. Si pensi al deprezzamento della istituzione familiare quale cellula fondamentale della società, alla facile dissoluzione del vincolo matrimoniale e conseguentemente delle famiglie, alla legittimazione dell’aborto e, in qualche nazione, anche dell’eutanasia, alla liberazione della pornografia, della droga, delle manipolazioni genetiche, ecc. Di fronte a questa realtà sta prevalendo in quasi tutti gli Stati il principio liberal-agnostico e giuridico-positivista secondo il quale in una società democratica la razionalità delle leggi dipende solamente da ciò che la maggioranza decide che venga permesso o tollerato. La « razionalità » del diritto, cioè, non appare più vincolata alla rispondenza delle norme alla natura umana, alle verità sulla dignità dell’uomo, ai valori morali oggettivi, che il diritto dovrebbe invece difendere e tutelare, per poter ordinare rettamente i comportamenti sociali ed evitare il progressivo sviluppo di una società selvaggia.
Diritto e Morale
A ragione perciò si sta sviluppando la consapevolezza — per voi, giuristi cattolici, può anche essere un fatto di esperienza professionale — che il diritto è in crisi, che c’è una generalizzata perdita del senso del diritto e della stessa virtù della giustizia. Non perché anche in consolidate democrazie si siano scoperte pesanti illegalità nella gestione della pubblica amministrazione nel mondo degli affari e nell’uso del pubblico denaro. Queste penose vicende — è vero — hanno fatto parlare ansiosamente di crisi del diritto e di crisi morale perfino ai dogmatici dell’etica laica, la quale — dopo aver soppresso dai contenuti etici i rapporti dell’uomo con Dio e dell’uomo con se stesso — ha ridotto la virtù della giustizia alla sola etica sociale, ai rapporti cioè puramente intersoggettivi. Ma, contrariamente alla visione riduttiva e miope di questo moralismo agnostico, le ragioni della crisi appaiono più vaste e assai più profonde che la semplice perdita del senso dei doveri sociali. Sono piuttosto il crescente impoverimento etico, l’amoralità permissiva dell’attività legislativa e giurisprudenziale in molti Stati, ed il conseguente progressivo indebolimento della razionalità delle loro leggi e delle sentenze dei loro tribunali, quelli che stanno portando al deprezzamento del diritto, ed alla perdita della sua sostanziale forza vincolante. L’amoralità del legislatore e quella del giudice costituiscono i più consistenti stimoli all’immoralità del cittadino.
Sono cosciente che a questo punto del nostro discorso qualcuno potrebbe obiettare valutando le predette affermazioni in chiave moralista e perfino fondamentalista: ma non ci si accorge che qui si stanno confondendo pericolosamente la morale e il diritto? , non ci si accorge che il precetto morale si appella alla coscienza, mentre la norma giuridica riguarda invece i rapporti esterni, la condotta sociale dell’uomo? non ci si accorge che in tutto questo ragionamento, oltre a detta commistione concettuale traspare una certa nostalgia del sistema politico giuridico dello Stato confessionale cattolico?
Facciamo notare subito, a scanso di equivoci, un fatto solitamente tralasciato dai sostenitori della morale laica e dell’assoluto positivismo giuridico dello Stato cosiddetto aconfessionale: ad opporsi alla legislazione permissiva dell’aborto, alle leggi statali che liberalizzano la droga, che facilitano il dilagare della pornografia, che permettono l’eutanasia, l’uso terapeutico e cosmetico degli embrioni umani ed altri attentati contro la dignità della persona umana, non è soltanto il Magistero della Chiesa Cattolica, ma lo sono anche le pronunce dottrinali più o meno formali di altre confessioni cristiane e di altre religioni (dall’Islam all’Ebraismo e non solo queste), e vi si oppongono anche, apertamente oppure con timidezza per il timore di essere subito etichettati come di destra, non pochi rappresentanti di quella parte del mondo intellettuale che si dichiara religiosamente indifferente ma culturalmente umanista. Agiscono così perché sanno benissimo che ad opporsi a tali leggi amorali non è soltanto la ragione illuminata dalla fede, ma prima ancora quella che già i classici chiamavano le retta ragione, espressione naturale dal senso morale originale, capace di distinguere il bene dal male, la verità dall’errore.
Ai partecipanti al Simposio organizzato dal nostro Pontificio Consiglio nel decimo anniversario della promulgazione del nuovo Codice di diritto Canonico, Giovanni Paolo II ha detto fra l’altro: « Come al centro dell’ordinamento canonico c’è l’uomo redento da Cristo e divenuto con il battesimo persona nella Chiesa “con i doveri e i diritti che ai cristiani, tenuta presente la loro condizione, sono propri” (can. 96), così le società civili sono invitate dall’esempio dalla Chiesa a porre la persona umana al centro dei loro ordinamenti, mai sottraendosi ai postulati del diritto naturale, per non cadere nei pericoli dell’arbitrio o di false ideologie. I postulati del diritto naturale sono infatti validi in ogni luogo e per ogni popolo, oggi e sempre, perché dettati dalla recta ratio, nella quale come spiega San Tommaso, sta l’essenza del diritto naturale: “omnis lex humanitus posita intantum habet de ratione legis, inquantum a lege naturae derivatur” (Summa Theologiae, I-II, q. 95, a. 2). L’aveva già compreso il pensiero classico, che Cicerone così esprimeva: “Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall’errore. È un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi ha la possibilità di abrogarla completamente”[11] »[12].
Dicano quel che dicano coloro che la negano[13], è pure un fatto che questa legge naturale — scolpita da Dio nel cuore degli uomini — è rimasta sostanzialmente inalterata attraverso la storia, anzi è stata un fattore decisivo nello sviluppo civile dei popoli e delle culture. Questa legge non è stata inventata dal Cristianesimo né da nessun’altra religione. La Chiesa Cattolica si limita a ricordare che « nei suoi precetti principali essa è stata esposta nel decalogo » e ribadisce per quanto riguarda il tema del nostro discorso: « Opera molto buona del Creatore, la legge naturale fornisce i solidi fondamenti sui quali l’uomo può costruire l’edificio delle regole morali che guideranno le sue scelte. Essa pone anche il fondamento morale indispensabile per edificare la comunità degli uomini. Procura infine il fondamento necessario alla legge civile, la quale ad essa si riallaccia sia con una riflessione che trae le conseguenze dai principî della legge naturale, sia con aggiunte di natura positiva e giuridica »[14].
Comunque, e tornando al campo della riflessione scientifica e metodologica, non sembra che si possa attribuire sufficiente consistenza all’eventuale obiezione di commistione concettuale tra morale e diritto. Infatti, è vero che la morale e il diritto sono due scienze diverse, che riguardano l’uomo da prospettive e con finalità differenti. La morale si occupa primariamente dell’ordine dell’uomo come persona: riguarda cioè l’insieme di esigenze emananti dalla struttura ontologica dell’uomo in quanto essere creato e dotato di una particolare natura, dignità e finalità. Il diritto, invece, si occupa primariamente dell’ordine sociale: riguarda cioè — stiamo parlando del diritto come ordinamento — l’insieme di strutture che ordinano la comunità civile, la società. Ma se il fatto più rilevante e positivo del progresso della scienza del diritto nel secolo XXº è stato proprio quello di mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista, l’uomo, fondamento e fine della società, è ovvio che il diritto di una sana democrazia deve tenere conto di quale sia la struttura ontologica della persona umana: la sua natura di essere non soltanto animale e istintivo ma intelligente, libero e con una dimensione trascendente e religiosa dello spirito che non può essere ignorata, né mortificata. Altrimenti il diritto — anche se lo si volesse chiamare democratico — sarebbe antinaturale essenzialmente immorale, strumento di un ordinamento sociale totalitario. Qui non c’è spazio — in pura onestà scientifica — per il relativismo etico (negare cioè l’esistenza di una verità oggettiva sull’uomo), come non c’è spazio (se si vuole evitare l’instaurazione di una società selvaggia) per difendere la legittimità di un diritto positivo divorziato dalla morale.
Tant’è vero che questo divorzio o separazione non può essere legittimato, né da un punto di vista teorico-scientifico né di fatto, che è stata proprio la crisi dell’etica a opera della filosofia immanentista e soggettivista a mettere in crisi il mondo della giustizia. Dato infatti lo stretto collegamento del diritto con la morale, non è affatto sorprendente che l’attuale crisi del diritto accompagni di pari passo quella della morale (simul stabunt et simul cadunt, si può ben dire). Ambedue le crisi, infatti, hanno lo stesso fondamento: il relativismo assiologico, il quale in definitiva si fonda sull’agnosticismo religioso. Ciò che viene illegittimamente messo in discussione è in definitiva l’esistenza di una verità del diritto fondata sulla realtà ontologica della persona umana, sull’essere personale e relazionale dell’uomo — e in ultima analisi, sull’esistenza di Dio —, il nocciolo cioè della visione classica, e non solo cristiana, del diritto e della legge naturale. I valori della democrazia, delle libertà e dei diritti umani sono avulsi così da ogni riferimento trascendente, e alla fine questi valori — ridotti e manipolati — si rivoltano contro lo stesso uomo e contro la convivenza civile. Non solo i beni giuridici naturali si relativizzano — a cominciare da quelli più fondamentali, come la vita e la famiglia —, ma si smarrisce lo stesso senso del diritto e della sua virtù corrispondente: la giustizia. Ed è questo smarrimento la prova più evidente della corruzione giuridica a cui stanno pervenendo le democrazie ammalate del post-illuminismo.
Prima che sia troppo tardi
Con fermezza, ma con tono pacato e sereno — anche perché in venti secoli di storia essa ha superato molti cataclismi sociali e crisi di civiltà — la Chiesa ha avvertito con riferimento a tale situazione: « Il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosca ce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a realizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse, la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro »[15]. E Giovanni Paolo II ha ribadito nell’enciclica Veritatis splendor: « Dopo la caduta, in molti Paesi, delle ideologie che legavano la politica ad una concezione totalitaria del mondo — e prima fra esse il marxismo — si profIla oggi un rischio non meno grave per la negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per il riassorbimento nella politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni essere umano: è il rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità »[16].
Purtroppo, per quanto riguarda la maggior parte degli ordinamenti giuridici delle nazioni democratiche, questo rischio sta diventando una penosa realtà. Ne abbiamo appunto fatto l’oggetto di questo discorso. Bisogna riconoscere che in tali nazioni il concetto stesso di democrazia si è pervertito e, conseguentemente, è entrata in crisi la razionalità del loro diritto. In queste società — dai demagoghi falsamente chiamate progressiste — la democrazia non è più un ordinamento sociale di libertà avente margini naturali: quelli della legge naturale, del rispetto dei diritti e dei doveri umani fondamentali, che hanno il loro fondamento nella verità oggettiva sulla natura della persona umana sulla sua vera dignità e libertà. Conseguentemente, si è ammalato anche il loro diritto: la razionalità delle loro leggi, infatti, non appare più vincolata — oltre che alle concrete circostanze sociali e culturali — alla necessaria tutela delle verità e dei valori oggettivi in cui risiede la dignità dell’uomo, che ogni sana democrazia è chiamata a tutelare.
Affermata con atteggiamento dogmatico e totalitario — di fundamentalismo laicista — l’assoluta autonomia del diritto positivo riguardo alla legge naturale, oggettiva — e più ancora riguardo alle verità sul destino trascendente dell’uomo —, l’unica eventuale connessione dell’attività giuridica con la morale la si vorrebbe trovare al solo livello di un’etica fluttuante, soggettiva e limitata ai soli rapporti sociali della persona. Ma quest’etica gravemente ammalata — affetta da insufficienza cardiaca, perché basandosi su verità convenzionali pretende di poter fare a meno del cuore e principio basilare della morale, che è Dio — si è dimostrata ormai in completo fallimento. Anche perché, come giustamente è stato detto: « La vita della coscienza è unitaria; e spesso in essa i fenomeni morali vivono al confine crepuscolare tra il conscio e l’inconscio. Quando dunque si approva una legge di Stato che autorizza l’aborto, è possibile che — magari non del tutto consciamente — qualcuno si dica: se è legittimo abortire, non sarà poi una catastrofe prendere delle tangenti, fatto morale meno grave »[17].
Ma che cosa fare per evitare questo suicidio giuridico — concetto simile a quello di aborto legale — della democrazia? La risposta non può essere che questa: bisogna salvare la libertà dell’uomo di fronte al totalitarismo agnostico, cioè al fundamentalismo laicista; bisogna ricostruire l’autentico concetto della libertà personale, che non può rimanere staccato dalla verità oggettiva (verità incondizionale, non soggettiva e convenzionale) sulla persona umana; bisogna riallacciare la giustizia alla verità: alla verità sull’uomo, alla verità sull’inizio ed il valore della vita umana, alla verità sull’unico possibile concetto di famiglia e di matrimonio e sulle stesse nozioni sociali di tolleranza e di ordine. In una parola alla verità sull’indisponibile dignità dell’uomo e sui diritti fondamentali che da questa dignità scaturiscono, che sono preesistenti al concetto stesso di democrazia e precedono la logica di qualsiasi ordinamento giuridico positivo e di qualsiasi potere politico costituito.
Illustrissimi e cari amici: riflettendo su tutto ciò, io mi permetterei di dire che l’interesse di questo nostro incontro, sulla linea dell’intero impegno culturale e spirituale della vostra associazione che sono ben lieto di conoscere direttamente, non sia soltanto di ordine professionale o scientifico, ma abbia anche un particolare dimensione spirituale e, per noi cristiani, una grande possibilità di incisività dottrinale ed evangelizzatrice. In questo tornante, infatti, della storia noi abbiamo il dovere di tutelare, tramite anche l’esercizio del lavoro professionale giuridico, la dignità della persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio e redenta da Cristo, perfetto Dio e perfetto uomo.
Prima perciò di concludere queste considerazioni non posso trascurare un’altra circostanza: il fatto, cioè, che ci troviamo nell’Anno dell’Eucaristia, indetto dal Santo Padre perché nella vita di ogni cristiano e della Chiesa il Sacramento dell’Altare acquisti una vera centralità. Pensando all’esempio della Madonna ci è facile unire questi ultimi giorni di preparazione al Natale con l’Anno eucaristico. Infatti, il Santo Padre ci ricorda che “Maria concepì nell’Annunciazione il Figlio divino nella verità anche fisica del corpo e del sangue, anticipando in sé ciò che in qualche misura si realizza sacramentalmente in ogni credente che riceve, nel segno del pane e del vino, il corpo e il sangue del Signore. C’è pertanto un’analogia profonda tra il fiat pronunciato da Maria alle parole dell’Angelo, e l’amen che ogni fedele pronuncia quando riceve il corpo del Signore”[18].
Cristo, Dio che si è fatto parola, immagine, carne, per venire incontro all’uomo ci chiede soltanto questo: che gli apriamo liberamente le porte del nostro cuore dove Lui desidera abitare per intrattenere un dialogo ininterrotto di amore. Questa è l’essenza del cristianesimo: Cristo che nasce e rinasce nei cuori degli uomini. La nascita storica di Gesù, annunciata dagli Angeli ai pastori, deve ripetersi sacramentalmente, misticamente nella nostra anima. Come scriveva un mistico del XVII secolo, “anche se Cristo nascesse mille volte a Betlemme ma non in te, saresti perso. Se ami solo Lui, Lui sarà totalmente tuo. Quanto più ti abbandoni in Dio, più Lui nasce in te”[19].
Ma dove Cristo nasce e rinasce, dove un uomo è salvato e redento dalla sua miseria e dalla sua angoscia, lì è presente Maria. Lei, Madre di Cristo e Madre dei cristiani, Maestra dell’abbandono fiducioso e del dialogo contemplativo, desidera trasformare tutti i cuori degli uomini in una grotta di Betlemme. E insegnarci a rivolgerci a suo Figlio e a riporre in Lui la nostra speranza. Un diacono di Costantinopoli del VI secolo, chiamato Romano il Melode, attribuisce a Maria Santissima queste parole rivolte agli uomini di tutti i tempi e di tutte le culture: “Non lamentatevi più. Io sarò vostra Avvocata presso mio Figlio. Mai più la tristezza, perché io ho portato al mondo la gioia. Sono nata per sconfiggere il regno del dolore, io, la piena di grazia. Asciugate le lacrime, accettatemi come mediatrice dinanzi a Colui che è nato da me, perché l’autore della grazia è lo stesso Dio generato sin dall’eternità. Non angosciatevi più, fugate qualunque paura: andrò io, piena di grazia, da Lui e gli parlerò”[20].
Pertanto, rivolgiamoci con fiducia alla Madonna perché ci aiuti a vivere con profondità questo Natale, a mettere a frutto gli insegnamenti che lo Spirito Santo vuole trasmetterci, ad imparare dall’esempio di Gesù, perfetto Dio e perfetto uomo. Ricorriamo a Maria Santissima anche per le famiglie di ognuno di voi, perché in esse regni la pace e la gioia che derivano dalla presenza nel nostro cuore di Cristo, Sole di Giustizia e Principe della Pace.
Roma, 14 dicembre 2004
Julián Card. Herranz
Presidente del
Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi
[1] Cfr. Etica Nicomachea, trad. di M. Zamalta, Rizzoli, Milano 1986, vol. I, lib. V, 9.
[2] Digesto 1, 1, 10, 2.
[3] Summa Theologiae, II-II, q. 57, a. 1.
[4] Discorso nell’Università di Vilnius, 5 settembre 1993: L’Osservatore Romano, 5-IX-1993, p. 1.
[5] Ibidem.
[6] Da diverse prospettive e con varie sfumature coincidono in questa idea di fondo tra gli altri: J. Maritain, L’homme et l’Etat, Paris 1953, pp 69 ss.; A. Del Noce, I caratteri generali del pensiero politico contemporaneo, Milano 1972; V. Possenti, Le società liberali al bivio. Lineamenti di filosofia della società, Genova 1991, pp. 281-314; J. Hervada, « Derecho natural, democracia y cultura », in Persona y Derecho, 6 (1979) pp. 200 ss.; S. Cotta, « Diritto naturale: ideale o vigente? », in Iustitia 1989 (2), pp. 119 ss.; J. Fornés, « Pluralismo y fundamentación ontológica del Derecho », in Persona y Derecho, 9 (1982) pp. 109 ss.; J. Finnis, « Liberalism and Natural Law Theory », in Mercer Law Review, 45(1994) pp. 687-701; M. Novak, « Dignité humaine et liberté de les personnes », in Liberté Politique, maggio 1998, pp. 155-166; M. Schooyans, « Démocratie et Droits de l’homme », in Liberté Politique, ottobre 1998, pp. 57-66.
[7] Cfr. A questo proposito José María Martínez Sandoval, « ¿Hay una verdad incondicional acerca del hombre? », in Persona y Derecho, 3 (1976), pp. 475-483.
[8] Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus, 1-V-1991: AAS 83 (1991), p. 850.
[9] Giovanni Paolo II, Esortazione Christifideles laici, 30-XII-1988: AAS 81 (1989), p. 462
[10] Giovanni Paolo II, Allocuzione a un gruppo di Vescovi in visita ad limina: L’Osservatore Romano, 29-XI-1992, p. 5.
[11] De re Publica, 3, 22, 33: Lact. Inst., VI, 8, 6-9.
[12] Pontificium Consilium de Legum Textibus Interpretandis, Ius in vita et missione Ecclesiae, Acta Symposii Internationalis Iuris Canonci d. 19-24 aprilis 1993 celebrati, Vaticano 1994, p. 1268.
[13] Per una critica sintetica delle varie obiezioni contro la legge naturale, cfr. tra gli altri, J.P. Schouppe, Le Droit Canonique, Bruxelles 1991, pp. 18-38.
[14] Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1955 e 1959.
[15] Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus, cit., p. 848.
[16] Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, del 6-VIII-1993, n. 101.
[17] Effetto notte sui lumi laici, intervista a V. Possenti, in Avvenire, 14-IX-1993, p. 17.
[18] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia, n. 55.
[19] Angelo Silesio.
[20] II Inno sul Natale.